Dialogo immaginario con il conte Giacomo Leopardi

Ricordando, dai tempi della scuola, quanto lei ha scritto in molte delle sue liriche e delle altre  opere, potremmo forse  affermare che il confine di maggiore evidenza è quello tra il nostro e l’altrui mondo. E tra questi mondi “personali” e il mondo in cui, più in generale, ci è capitato di vivere. Ecco: cominciamo a chiederci che cosa sia questo nostro mondo.

“Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene e di vili contro i generosi”(1)

Ma come può essere? E perché?

“Di tutto, anche se con gravissime e estreme minacce vietato, si può al mondo non  pagare pena alcuna. Dei tradimenti, delle usurpazioni, degl’inganni, delle avarizie, oppressioni, crudeltà, ingiustizie, torti, oltraggi, omicidi, tirannia, non si paga pena; spessissimo, addirittura, se ne ha premio, o certo utilità. Ma inesorabilmente punita e a nulla utile, e sempre dannosa, e tale che mai non ischiva il suo castigo, mai non resta senza pena, è la dabbenaggine (coglioneria) e l’esser galantuomo, ch’altrettanto è a dire” (2)

Curioso. Pensi che la medesima opinione l’ha espressa il marchese De Sade non molto tempo fa: “Ma che cosa volete che vi dica ? Non è alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo alla vostra ragione – ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù punita.” [ Citato da: Michel Foucault, La Repubblica, 27 novembre 2011, pgg 24 – 25. Dove tra l’altro Foucault sottolinea come lo scopo di De Sade “Non è comunicare né convincere nessuno. Bensì superare il confine tra la realtà e l’immaginario” ]

Può comunque precisare meglio il suo pensiero, fornendoci, al riguardo, qualche argomentazione ulteriore?

“Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di  mondo circoscrivesse e stabilisse l’idea [del mondo stesso in quanto] perpetuo nemico della virtù, dell’innocenza, dell’eroismo, della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo, della vita e delle azioni, della natura, insomma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo purtroppo vero che, come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice” (3)

 “Osservate gli scrittori antichi e non ci troverete mai quest’idea del mondo nemico del bene che si trova a ogni passo del Vangelo, e negli scrittori moderni, ancorché profani” (4)

Ammettiamo che sia come dice lei: vivere in un tale mondo, nemico del bene e del bello, non è certo facile. Può darci un primo consiglio, per esempio per evitare qualche clamoroso errore ?

“Uno degli errori gravi nei quali gli uomini incorrono giornalmente è di credere che sia tenuto il segreto rispetto a ciò che essi rivelano in confidenza […] Nello stato sociale nessun bisogno è più grande di quello di chiacchierare, mezzo principalissimo di passare il tempo, ch’è una delle prime necessità della vita. E nessuna materia di chiacchiere è più rara che una che svegli la curiosità e scacci la noia: il che fanno le cose nascoste e nuove. Perciò prendi fermamente questa regola: le cose che tu non vuoi che si sappia che tu abbi fatte, non solo non le ridire, ma non le fare” (5)

E agli educatori, ai genitori, quale consiglio pensa di poter dare ?

“Non sarebbe piccola infelicità degli educatori e dei parenti se pensassero, quello che è verissimo, che i loro figliuoli, qualunque indole abbiano sortita, e qualunque fatica, diligenza e spesa si ponga nell’educarli, coll’uso poi del mondo, quasi indubitalmente, se la morte non li previene, diventeranno malvagi” (6)

Ma non è vero! Il suo pessimismo è radicale, si direbbe quasi “leopardiano”…In ogni caso non possiamo far altro che prenderne atto.

Affrontiamo ora un’altra questione, forse meno impegnativa rispetto a tutto ciò di cui abbiamo fin qui discusso: come forse ha avuto modo di leggere, è stato scritto – ormai molto tempo fa – che “La vita è un  palcoscenico”. Si tratta di un’indicazione operativa che ancor oggi viene tenuta ben presente, ad esempio, nella formazione aziendale e scolastica, dove si fa ormai largo uso del teatro in quanto forma di efficace intervento educativo. Le organizzazioni, cioè, portano sulla scena, e rappresentano, ciò che caratterizza gli stati d’animo, le attese e le emozioni da cui discende il fare quotidiano. Lei cosa ne pensa ?

“Quello che si dice comunemente, che la vita è una rappresentazione scenica, si verifica soprattutto in questo, che il mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera costantissimamente in un’altra. Della quale commedia essendo oggi tutti recitanti, perché tutti parlano a un modo […] segue che tale rappresentazione è divenuta cosa compiutamente inetta, noia e fatica senza causa. Sarebbe allora impresa degna del nostro secolo quella di rendere la vita finalmente un’azione non simulata ma vera e di conciliare per la prima volta al mondo la famosa discordia tra i detti e i fatti” (7)

La conciliazione tra il dire e il fare e il vivere una vita vera e non simulata, sarebbe impresa che ciascun uomo dovrebbe compiere, qualsiasi sia il luogo e il tempo in cui conduce la propria vita, vera o simulata che sia. Ma come sono questi uomini, dal suo punto di vista ?

“In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana, sono notati come particolarità del luogo. Io non sono mai stato in parte dov’io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti, leggono poco e sono male istruite; qui il pubblico è curioso dei fatti altrui, ciarliero e maldicente; qui i danari, il favore e la viltà possono tutto; qui regna l’invidia e le amicizie sono poco sincere; e così discorrendo, come se altrove le cose procedessero in  altro modo. Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente” (8)

 I danari, appunto. Mi pare di ricordare che la sua opinione sia al riguardo molto critica: ce la può riassumere in poche parole ? La questione è per noi di particolare interesse soprattutto in questo periodo, dove stati e nazioni corrono il rischio di fare bancarotta proprio per i debiti accumulati, non è ben chiaro da chi, con chi e perché.

“Gli uomini, pur discordando in tutte le altre opinioni, concordano solamente nella stima della moneta: quasi che i danari  in sostanza siano l’uomo; e non  altro che i danari: cosa che veramente pare per mille indizi che sia tenuta dal genere umano per assioma costante, massime ai tempi nostri [1829! NdR]. Al qual proposito diceva un filosofo francese del secolo passato: i politici antichi parlavano sempre di costumi e di virtù; i moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta. Ed a gran ragione, soggiunge qualche studente di economia politica o allievo delle gazzette in filosofia: perché le virtù e i buoni costumi non  possono stare in piedi senza il fondamento dell’industria; la quale, provvedendo alle necessità giornaliere e rendendo agiato e sicuro il vivere a tutti gli ordini di persone, renderà stabili le virtù. Molto bene. Intanto, in compagnia dell’industria, la bassezza dell’animo, la freddezza, l’egoismo, l’avarizia, la falsità e la perfidia mercantile, tutte le qualità e le passioni più indegne dell’uomo incivilito, sono in vigore e moltiplicano senza fine; ma le virtù si aspettano” (9)

Ammettiamo che così stiano le cose, anche se il suo punto di vista ci sembra pecchi alquanto di una sorta di dogmatico manicheismo. Comunque, quale considerazione le sembra di poter avanzare in relazione al rapporto tra individuo e danaro ?

“In alcuni luoghi tra civili e barbari come è, per esempio, Napoli [“Popolo semicivile e semibarbaro” è chiamato quello di Napoli in Zib. 4289, 18 settembre 1827, NdR] è osservabile più che altrove una cosa che in  qualche modo si verifica in tutti i luoghi: cioè che l’uomo riputato senza danari, non  è stimato uomo; creduto danaroso, è sempre in pericolo di vita. Dalla qual cosa nasce che in siffatti luoghi è necessario, come vi si pratica generalmente, pigliare per partito di rendere lo stato proprio in materia di danari un mistero; acciocché il pubblico non sappia se ti deve disprezzare o ammazzare” (10)

 

È a questo punto il caso di richiamare il concetto di Etica, quale forse  valore fondante per smussare quelle anomale (o naturali?) caratteristiche del mondo così come fin qui è stato descritto.

“Nel secolo presente i neri sono creduti di razza e di origine diversi dai bianchi e nondimeno totalmente uguali a questi in quanto a diritti umani. Nel secolo decimosesto i neri, creduti avere una radice coi bianchi ed essere una stessa famiglia, fu sostenuto, massimamente dai teologi spagnoli che in quanto a diritti fossero per natura e volontà divina di gran lunga inferiori a noi. E nell’uno e nell’altro secolo i neri furono e sono venduti e comperati e fatti lavorare in catene sotto la sferza. Tale è l’etica” (11)

Ma lei è un uomo impossibile, simpatico ma impossibile: neanche l’etica le sta bene…Esiste allora almeno un sentimento, uno solo, che riesce a individuare come espressione di un’umanità degna di questo nome ?

“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani” (12)

Lei è proprio un aristocratico! Ed è altrettanto indubbia la sua profonda cultura: come si rapporta con il prossimo una persona dalle conoscenze così estese ? Il suo sapere avrà pure dei limiti…

“Il più certo modo di celare agli altri i limiti del proprio sapere, è di non  oltrepassarli” (13)

Stiamo discorrendo già da un po’ di tempo e l’idea che a questo punto mi son fatto – quasi certamente sbagliata – è che lei tenda alla misantropia. O no ?

“Chi comunica poco con gli uomini, rare volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l’uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia” (14)

Ritirarsi dalla società: è presto detto. E, in ogni caso, fintanto che si è in vita, non possiamo non vivere nella società. In una società che evolve storicamente e tende a conservarsi coltivando i propri valori di riferimento, religiosi o laici che siano.

“La conservazione della società sembra più opera del caso che d’altra ragione e riesce veramente maravilglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano, si insidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male. Tutti sanno, con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano e d’altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati e garantiti principalmente dalle opinioni” (15)

Parliamo ora di macchine o meglio, di quella che viene definita “età delle macchine”. In che senso e per quale ragione ?

“Non solo perché gli uomini di oggi procedono e vivono forse più meccanicamente di quanto vivessero nel tempo passato, ma anche per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate a tanti e così vari esercizi che oramai non gli uomini, ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita. […] [E allora non sarebbe male che si inventasse] qualche congegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degli insensati, dei ribaldi e dei vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria dei saggi. Qualche parainvidia o paraperfidia o parafrodi” (16)

Lei, al riguardo, propone addirittura l’istituzione di un premio da assegnare a chi inventasse tre macchine particolari. Ce ne può ricordare le caratteristiche ?

“L’intento della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico; […] la seconda macchina vuol essere un uomo a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime; […] la terza macchina deve essere disposta a fare gli uffici di una donna. […] (17)

Qui, come altrove, si percepisce e si conferma il suo essere predisposto all’uso tagliente della satira, dell’ironia e – a tratti – il suo gusto per la burla e gli approcci comici. Come quando, ragazzino di 12 anni, scrisse una lettera alla marchesa Roberti firmandola “La Befana”. E si trattava di una letterina non proprio educata che così terminava “…Frattanto siate allegri, e andate tutti dove io vi mando e restate finché io non torno, ghiotti, indiscreti, somari, scrocconi dal primo fino all’ultimo”. Dovrebbe ricordarsene, e ricordarsi anche che suo padre, il conte Monaldo, ne fu molto contrariato.

Da allora è passato molto tempo ed è ormai trascorso anche il tempo che aveva gentilmente deciso di dedicare al nostro colloquio. Nel ringraziarla di cuore e confermandole la mia più profonda stima, mi piacerebbe poter riferire ai lettori una sua ultima indicazione, quasi un secco aforisma che possa considerarsi punto di riferimento per il nostro vivere quotidiano. Che ci indichi quel poco di piacevole che comunque la vita in ogni caso ci offre.

“Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni” (18)

Senza altro aggiungere, il conte Giacomo ci congeda con un sorriso, dolce e venato di malinconia.

Ps: chi fosse interessato alla bibliografia non ha che da chiedere!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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