CONDURRE UN PRIMO COLLOQUIO PROPONENDOSI DI DESCRIVERE IL “CASO”, RINTRACCIANDONE LE DINAMICHE ESISTENZIALI SOTTOSTANTI. LA PROPOSTA OPERATIVA (E DI MASSIMA EFFICIA) DI ALICE GARBIN

Di seguito il “gioco-esercizio” proposto a Psicocose. Alice Garbin ci suggerisce come affrontare la situazione immaginata, indubbiamente critica. Le modalità di ascolto partecipato che propone (quasi: il modello comunicativo) rivestono un’indubbia validità che va oltre il contesto clinico per porsi come “strumento” utile anche per la lettura delle pagine esistenziali dei libri (scritti da bambini e ragazzi) che volontari e psicologi sfogliano nella biblioteca dell’UVI, permettendone così la definizione di “Farmacia del pensiero”.

« Il Bonus per lo Psicologo pare sia stato approvato. Il che dovrebbe consentire, a coloro che non ne avrebbero la possibilità economica, di rivolgersi (chi lo sa…) a uno di voi. La “quota” mi pare di aver capito sia abbastanza ridotta, comunque meglio di niente. Per noi è un segnale.

Esercitiamoci, allora: dopo aver preso l’appuntamento, ecco che un cittadino chiede il vostro aiuto e si presenta con  il suo bel bonus. In apertura del colloquio e quasi per presentare il proprio disagio, vi dice: «Un immenso vuoto, un immenso vuoto: tutto è vuoto. Tutte le parole sono logore. Ho visto tutte le azioni fatte sotto il sole: ecco, tutto è vuoto e fame di vento. Ho in odio la vita: mi fa orrore. Più beato di tutti è chi non esiste ancora e non ha ancor visto tutto il male perpetrato sotto il sole».

E voi, come reagireste? Che cosa immaginate di potergli dire? Che stia attraversando una fase potentemente depressiva che potrebbe addirittura prefigurare un suicidio? ».

*

Immagino di condurre questo primo colloquio in un ambiente in cui sono a mio agio e in cui anche il paziente si possa ambientare in modo non troppo difficoltoso: una stanza semplice, con colori neutri, una comoda poltrona su cui può sedersi e trovare un senso di rilassamento fisico e mentale. Una prima immediata analisi che mi appunto mentalmente riguarda il suo aspetto generale: come è vestito e se è curato o meno, se fisicamente ci sono segni di condizioni particolari che poi potrò approfondire in seguito, la mimica facciale e il comportamento motorio, se è agitato o calmo, come si è accomodato e che posizione assume sulla poltrona. Infine posso già notare mentre parla se mantiene il contatto visivo, se ha un buon livello di vigilanza, orientamento e giudizio (spaziale, temporale e su di sé): se la persona è in grado di collocarsi correttamente nello spazio (sa di essere nella stanza), nel tempo (riesce a definire giorno, momento della giornata) e ha una buona capacità di giudizio del sé (è consapevole di se stesso). Mentre parla posso anche rilevare il suo livello di attenzione, concentrazione e memoria. L’eloquio è un altro fattore su cui posso concentrarmi: generalmente un eloquio rallentato nella forma riflette un pensiero altrettanto lento e viceversa così come l’associazione tra eloquio e comportamento molto possono suggerirmi circa lo stato della persona. Avendo accesso solo alle informazioni circa le sue parole, posso concentrarmi unicamente su di esse tralasciando l’esame di stato mentale sopra descritto. La prima cosa che noto è l’impeto delle sue parole, anche se non posso dedurne il tono e la velocità, immagino che siano pronunciate in modo lento e plateale, come a voler sottolinearne la violenza che operano sulla sua psiche e che di conseguenza dovrebbero coinvolgere anche me in questa condivisione di emozioni.

Noto la ripetizione della parola “vuoto” che immagino pronunciata con enfasi. Noto che nella frase viene usata per ben due volte la parola “sole” che dovrebbe riportarmi a qualcosa di positivo ma che invece sono il segnale di una consapevolezza, amara, di ciò che sta accadendo.

Mi soffermo a riflettere sulla scelta delle parole usate dal paziente e sul motivo per cui le ha scelte tra i tanti modi con cui poteva esprimere un malessere.

Tra tutti gli stili di comunicazione del paziente che Liberman ha definito nel 1976 e che Etghegoyen ha poi ripreso 10 anni più tardi, mi sembra di riconoscere un misto di narrativo ed estetico: la volontà di raccontare in modo dettagliato ciò che in questo momento prova si fonde con la scelta di usare un linguaggio evocativo, che ha un grande impatto estetico su di me e che forse tende verso la seduzione, rischio da cui è bene stare lontani soprattutto in questa prima fase di contatto. D’altra parte la voglia di parlare ed esprimersi (mi immagino infatti che dopo questa frase continui il discorso iniziato arricchendolo di altre figure retoriche) mi ricorda uno stile più narrativo, atto a descrivere come sta e cosa sta provando, in modo chiaro e lineare, senza giungere necessariamente alla precisione e al dettaglio di una persona con tendenze nevrotiche e ossessive, ma con l’accuratezza di chi, forte di una buona capacità introspettiva, è in grado di riconoscere le emozioni e i sentimenti sottostanti.

La prima mia tendenza sarebbe quella di lasciarlo parlare e prendere nota (mentalmente o fisicamente) di ciò che sta dicendo, ma anche di quello che non sta dicendo, la sua volontà di tralasciare alcuni argomenti per metterne in primo piano altri. Lo incoraggerei a esprimere ciò che prova, cercando di comprendere se la prima battuta è il suo modo di esprimersi e al cui linguaggio cercherei di adeguarmi (vedi lo stile narrativo), oppure solo l’immediata espressione di un sentimento per sorprendere e attirare la mia attenzione (vedi lo stile estetico). Trovo che il dire qualcosa nell’immediato, se non per far comprendere che si sta ascoltando, possa interrompere il flusso di pensiero del paziente, soprattutto se nella prima seduta si riconosce un’urgenza di trovare un luogo sicuro in cui trovare sollievo. Opterei invece per fornire un feedback che dimostri che ho compreso ciò che ha espresso, lasciando però spazio alle sue ulteriori riflessioni e eventuali domande dirette. Sia la tecnica del rispecchiamento (che mira a rimandare al cliente i contenuti emotivi delle sue parole in modo chiaro ed esplicito) che quella della parafrasi, anch’essa finalizzata a rielaborare il contenuto delle comunicazioni al doppio fine di comprendere correttamente ciò che voleva esprimere il paziente tanto quanto far capire a lui ciò che ha espresso in altri termini, siano tecniche di approccio molto utili le quali possono modulare il livello di contatto con il paziente alla singola situazione in base all’immediato transfert che potrei ricevere.

Uno degli obiettivi che potrei pormi è quello di capire cosa ha scatenato questa reazione, l’evento nella giornata o nella settimana che lo ha portato a richiedere un colloquio e poi giungere con questo impeto al primo contatto con una persona che non conosce. Altrettanto interessante è analizzare quanto tempo è trascorso tra la richiesta di colloquio e l’effettivo incontro, al fine di valutare anche la reale forza del disagio o la capacità di gestirlo nel tempo: il fatto che sia riuscito ad aspettare una settimana o più nonostante l’urgenza espressa in prima battuta, mi fornisce un segnale circa la persistenza del disagio a cui si è “abituato”, includendolo quindi nella sua quotidianità o la “leggerezza” del disturbo che, lungi dal non volerlo considerare seriamente, non ha la forza e il peso di chi manifesta gli stessi sintomi e non è in grado di attendere per un certo lasso di tempo, per cui invece sarebbe opportuno un intervento atto a ridurre il rischio di comportamenti autolesionistici.

A parte questa frase ho davvero pochi elementi per ipotizzare una diagnosi che va verso la depressione maggiore o, ancor peggio il rischio di suicidio e di certo non definirei questo quadro in una prima seduta, non prima di aver approfondito con lui/lei altre tematiche.

Bibliografia:

Rovetto F., Moderato P., Progetti di intervento psicologico. Idee suggestioni e suggerimenti per la pratica professionale, 2005, Mc Graw-Hill

Nicolini C., Il colloquio psicologico nel ciclo di vita, 2009, Carocci

AA. VV, Manuale di Psichiatria, 2009, Edra

ALICE GARBIN

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