“PROF., HO UN PROBLEMA DI CONNESSIONE…”

RIFLETTERE INSIEME SULLA DAD

Martedì 30 marzo 2021, dalle ore 17 alle ore 19, si è tenuto, nellambito delle attività organizzate dal Nucleo di Ricerca in Didattica della matematica (NRD) del Dipartimento di Matematica e Geoscienze dell’Università di Trieste, l’Incontro “Prof., ho un problema di connessione…”. Tale iniziativa rientra nel ciclo di incontri “Parliamo di matematica, insieme” programmati dal Nucleo di Ricerca in Didattica della matematica per l’anno accademico 2020-2021 (indicativamente con cadenza mensile, di pomeriggio, della durata di due ore ciascuno, da remoto data la situazione di emergenza sanitaria COVID-19). Si tratta di incontri tematici, su argomenti di didattica della matematica e di approfondimento disciplinare, atti a sviluppare una discussione anche a livello trasversale tra i docenti frequentanti (docenti di scuole di ogni ordine e grado).

L’Incontro “Prof., ho un problema di connessione…” è stata un’occasione per riflettere e conversare insieme sul tema della DAD, Didattica A Distanza, che è di scottante attualità e su cui, giocoforza, noi tutte/i siamo chiamate/i a dire la nostra.

Il titolo dell’incontro è stato inconsapevolmente suggerito da una ragazzina di classe quinta di una scuola primaria di Milano, che durante la lezione aveva interrotto la propria maestra chiamandola “Prof.”. La lezione seguita riguardava, nello specifico, la geometria, e la “connessione” concerneva senz’altro gli aspetti tecnici, ma anche, metaforicamente, la dimensione emotiva della situazione di DAD.

La DAD rientra nella famiglia di provvedimenti atti a circoscrivere e limitare la diffusione del virus COVID-19. Al riguardo, la parola chiave è “distanza”.

Un qualcosa di comunicativamente rilevante, con la DAD, corre, in effetti, il rischio di “rompersi”: non si tratta della “relazione” in senso proprio e stretto, ciò che viene a mancare è piuttosto la FISICITÀ. Si tratta di un concetto chiave sottolineato anche da Chiara Alpi (volontaria UVI, Unione Volontari per l’Infanzia e l’Adolescenza di Milano) nella conferenza serale che ha tenuto lo scorso 8 aprile 2021.

Se condividiamo l’idea che la comunicazione non verbale e para verbale svolga un ruolo di maggior peso rispetto alla comunicazione verbale (che sia più importante, cioè, il “come” del “che cosa”), risulta evidente che nella DAD il processo comunicativo finalizzato al raggiungimento di specifici obiettivi venga ad assumere nuove e diverse connotazioni.

Dal vivo e in presenza, il docente (maestro o professore che sia) ha la possibilità di decodificare e interpretare i segnali deboli trasmessi soprattutto con il canale comunicativo non verbale. La mediazione della tecnologia rende impossibile questa sostanziale forma di “ascolto”. Ma tant’è: le cose stanno così e dobbiamo immaginarci una gestione costruttiva delle criticità evidenti ed evidenziate. È necessario rifarsi alle risorse creativo-immaginative di ciascun docente.

La proposta di Guido Petter (Petter, 1994) acquista allora un valore metaforico di sostanza: occorre, comunque, determinare condizioni di partecipazione che vedano nella curiosità la caratteristica di fondo. L’insegnante, scrive Petter, dovrebbe presentarsi in aula con una “valigetta delle sorprese” per, appunto, sorprendere e incuriosire i giovani allievi, bambini o ragazzi che siano. E ciò può essere fatto anche a distanza.

In questo contesto di DAD, assume particolare interesse una considerazione di   Umberto Galimberti (Galimberti, 1992): il senso e il valore della didattica dipendono dalle intenzioni educative di coloro che la praticano. Da ciò discendono, sempre secondo Galimberti, diversi modelli didattici:

  • Modello disciplinare

Al centro della relazione vi sono le esigenze dell’insieme disciplinare da impartire con conseguente preminenza del programma rispetto alle aspettative e alle motivazioni degli alunni.

  • Modello curriculare

La decisione dei contenuti da trasmettere e le relative modalità si attuano all’interno di una cornice generale non direttiva, in quanto al centro del processo vi sono le possibilità e le potenzialità differenziate degli alunni.

  • Modello attivistico

Si sottolineano e valorizzano la partecipazione e l’intervento attivo degli alunni, in base all’ipotesi secondo la quale ciascuno (bambino, ragazzo o adulto che sia) apprende veramente solo quando “fa” le cose e “tocca con mano” gli argomenti. Essi diventano interessanti proprio in quanto ciascuno può “trattarli” personalmente, riconoscendone il valore in rapporto al miglioramento della qualità della propria vita (il proprio “essere nel mondo”).

  • Modello relazionale

Si predilige la relazione interpersonale rispetto ai contenuti da trasmettere, nella persuasione che la relazione affettiva e il contesto educativo favorevole facilitino l’acquisizione intellettuale e l’apprendimento, che risulta così più agevole quando sia stato possibile circoscrivere ed eliminare difficoltà e conflitti a livello emotivo.

È ragionevole che ciascun docente, nella propria pratica educativa, abbia presente ognuno dei modelli descritti e che si ispiri, di volta in volta, all’uno piuttosto che all’altro, in considerazione delle esigenze che il contesto avanza e propone.

Un esempio che contribuisce a chiarire questo punto è il seguente [si tratta di un “caso” seguito personalmente da Silvio Morganti]: i genitori di un bambino adottato (dopo aver trascorso i primi sei anni della vita in un orfanotrofio russo) chiedono supporto in quanto il figlio, a scuola, è distratto, iperattivo e, soprattutto, odia la matematica (non sopporta i numeri). Un problema, quest’ultimo, che è subito in parte superato “istintivamente”, prescindendo, cioè, da un modello teorico specifico – ponendogli la domanda: “Ma tu, da grande, che cosa vorresti fare?”.

Il bambino risponde che vorrebbe fare il muratore. Gli viene fatto osservare e gli si ricorda che il muratore deve usare i numeri, ad esempio per misurare muri, pareti, finestre e spazi. Per fortuna, in un cassetto vicino c’è un metro di legno, proprio da muratore. Glielo si consegna e da quel momento il bambino trascorre il resto della seduta misurando il pavimento, le porte e le finestre della stanza e annota su un quaderno le varie misure (numeri, quindi). Alla madre che viene a prenderlo fa vedere con soddisfazione il quaderno con i numeri che ha personalmente scritto. [Il bambino è stato seguito per un anno circa, dopo di che ha cambiato residenza e non se ne sono avute più notizie.] Questo esempio è uno dei molti “casi” dove, a posteriori, sono riconoscibili tutti i modelli descritti: disciplinare, curriculare, attivistico, relazionale.

La domanda che possiamo quindi porci è la seguente: la DAD consente una tale procedura, visto e considerato che ciò che manca è la fisicità?

Teniamo presente la provocazione di Karl Popper (Popper, 2002): la scuola esiste (e ha senso) in quanto le persone non sanno e “sbagliano”. Se le persone sapessero, la scuola sarebbe inutile.

Perché allora “punire” l’errore? Valorizziamolo invece, individuandolo come terreno di sviluppo e di crescita. Cerchiamo di comprendere che cosa esattamente non si sia capito e perché, così da poterlo ri-spiegare con un “taglio” maggiormente adatto all’interlocutore, magari giocando.

Ma come facciamo a “giocare” in assenza dell’indispensabile fisicità? Oltretutto, la variabile “tempo” assume rilevanza significativa (in generale, non abbiamo il tempo per fare tutte le cose che vorremmo). “Il tempo passa”, siamo portati a pensare, dimenticando che “siamo noi a passare”, e non il tempo in sé e per sé.

Immaginiamo allora per un solo momento che la scuola sia progettata e costruita come dovrebbe essere progettato e costruito un giocattolo.

Un giocattolo (e quindi la scuola) dovrebbe rispondere a tre caratteristiche: forma, funzione, racconto.

Per quanto riguarda la forma, la “scuola-giocattolo” dovrebbe essere armonica, equilibrata, bella, incuriosente, semplice, essenziale, riconoscibile.

Per quanto concerne la funzione, essa dovrebbe stimolare la creatività, produrre interesse, essere divertente, creatrice di relazioni, accessibile, durevole, facilitare l’interattività, essere alimento della mente e distribuire nuclei di etica (laica).

Per quel che riguarda il racconto, dovrebbe narrare una storia, esprimere la cultura del rispetto, evidenziare le “radici” (valorizzando le differenze), dovrebbe emozionare, in modo che si venga a costituire come una sorta di traghetto e che sia un ponte tra realtà e immaginazione (andata e ritorno).

Proviamo a discuterne un po’ insieme, sapendo che, in ogni caso, abbiamo a che fare con un vincolo al momento non superabile: il programma cui gli insegnanti devono attenersi. E qui il tratto quantitativo sembra prevalere sul pur necessario tratto qualitativo.

Ecco uno dei punti interessanti sul quale merita riflettere: il “quantitativo” si esprime con i numeri e, per questo aspetto, la matematica ne è l’espressione principe. Allora la nostra sfida è: come facciamo a rendere la “quantità” “qualità” che possa rispondere alle attese e alle motivazioni degli alunni?

Anche in questo caso, “torniamo all’antico, sarà una novità”, come da verdiana memoria.

Nella prima aria di Le nozze di Figaro di Mozart, Figaro stesso fa i conti, prendendo le misure (approccio quantitativo) per cercare di capire se il letto potrà stare nella stanza che il signor Conte cede a lui e a Susanna (con un obiettivo chiarissimo a Susanna, ma non a Figaro, suo futuro marito).

Figaro misura: “Cinque… dieci… venti… trenta… trentasei… quarantatré”.

Di rimando Susanna: “Ora sì ch’io son contenta; sembra fatto inver per me… guarda adesso il mio cappello”.

E Figaro si convince: “Sembra fatto inver per te”.

Ecco il punto: bisogna far sì che nelle aule si diffonda una sensazione diffusa di piacere e di contentezza. Possibile con la DAD? Difficile ma possibile. Basterebbe tener conto, seguendo Enzo Spaltro (Spaltro, 2007), che, oltre ai concetti di “malessere” e di “benessere”, vi è anche la dimensione del “bellessere”. La categoria estetica del “bello” (anche emotivo) assume valenza di rilievo. La lezione dovrebbe essere percepita come, appunto, “bella”, anche dal punto di vista estetico.

Tornando al passato, Mozart descrive, nella prima aria di Le Nozze di Figaro, la dialettica tra quantitativo (Figaro che prende le misure) e qualitativo (Susanna con il suo cappellino). Il bambino russo di cui si è detto in precedenza “misurava” la stanza, ma si è sentito affettivamente coinvolto solo quando i numeri hanno assunto per lui valenza significativa dal punto di vista qualitativo (i numeri che acquistano senso rispetto al suo progetto di vita lavorativa futura).

Per inciso: la musica è uno strumento potente in rapporto alle strategie comunicative di ogni ordine e grado, intrapersonale innanzitutto (l’insegnante, prima di entrare in aula, discorre tra sé). E pare che l’ascolto della musica di Mozart favorisca e velocizzi le connessioni neuronali. In ogni caso, le note sul pentagramma, i tempi (allegro, vivace, con fuoco…), le partiture e gli spartiti hanno a che vedere proprio con la matematica; sono “numeri” che si trasformano nel “telaio magico” dell’ascolto empatico, emotivo ed emozionante, premessa questa per un apprendimento efficace e duraturo. Gli strumenti musicali (archi, ottoni, legni) sono strumenti “poveri” e semplici: un tubo con dei buchi, un legno con dei fili di metallo, e così via. Ma, forse proprio in quanto strumenti poveri e semplici si fa per dire, perché un oboe costa migliaia di euro –, producono, appunto, la magia del suono. Un “mezzo”, quindi, che può essere tenuto presente anche in assenza di “fisicità”.

La trasmissione di un qualsiasi sapere disciplinare può perciò avvalersi della musica, che, di volta in volta, venga individuata come la più adatta in considerazione del contesto, degli obiettivi e delle “caratteristiche” di coloro che saranno tenuti alla fruizione della “lezione”. Le note, in un certo senso, possono prenderci per mano e accompagnarci lungo il sentiero di un ascolto attivo e produttivo.

Effetto analogo sono in grado di avere le fiabe: in questo caso, le parole si trasformano in paesaggi immaginati, dove il fantasticare evocato e indotto viene a costituirsi come terreno adatto ad accogliere i “semi” del sapere che abbiamo il compito di trasmettere (cfr., per quanto concerne la matematica, Caprin, Leder, Rocco & Zudini, 2019).

Musica e fiabe, quindi, possono essere considerati strumenti di una comunicazione finalizzata al raggiungimento di precisi obiettivi didattico-educativo-pedagogici soprattutto quando la didattica si fa a distanza.

In conclusione, possiamo cercare di individuare e mettere in luce alcune ulteriori caratteristiche della DAD: il setting cambia (ad esempio, l’insegnante non può passare tra i banchi); si presentano originali fenomeni di “distrazione” e interferenza (la nonna seduta a fianco che, fuori dalla portata della telecamera, suggerisce e commenta); lo sguardo diretto è assente (e ciò, va rimarcato, può essere vissuto dalla persona timida in termini positivi); i ruoli si scambiano con maggior facilità: sono i bambini che a tratti diventano “maestri” della maestra (“Maestra, deve accendere la telecamera, se no non la vediamo”).

Messaggio finale…

La DAD, con tutti i suoi limiti – a cominciare, non dimentichiamolo, da quelli tecnici  e organizzativi: tutti i soggetti implicati (gli allievi e le loro famiglie, i docenti stessi) devono avere a disposizione la tecnologia adatta (computer), con un’adeguata copertura di rete, e soprattutto devono essere in grado di utilizzare tale tecnologia in modo appropriato, corretto e sicuro – può tuttavia essere colta in quanto costruttiva (e creativa) occasione di una crescita culturale che manifesterà il proprio “valore” quando riusciremo a fare della “presenza” la cifra caratteristica di ogni percorso comunicativo.

Poniamoci allora nella prospettiva dello “scoprire” ciò che di buono, bello, interessante e utile la DAD quotidianamente ci prospetta (cfr. Addimando, Leder & Zudini, 2021). Una gioiosa e stimolante sfida, potremmo dire.

Bibliografia

Addimando, L., Leder, D., & Zudini, V. (2021). Teaching and learning in the COVID-19 Era: The experience of an Italian primary school class. TOJET, 20(1), 60-67.

Caprin, C., Leder, D., Rocco, M., & Zudini, V. (2019). The fairy tale as a means to reinforce learning in mathematics: A didactic experiment at Italian primary school level. TOJET, Special Issue for INTE – ITICAM 2019 (October 2019, Volume 1), 287-292.

Galimberti, U. (1992). Dizionario di psicologia. Torino: UTET.

Petter, G. (1994). La valigetta delle sorprese. Firenze: La Nuova Italia.

Popper, K. R. (2002). Diritto d’errore. Roma: Armando.

Spaltro, E. (2007). Il decalogo del bellessere. FOR, 72, 49-51.

Silvio Morganti

Responsabile scientifico UVI

Milano

Verena Zudini

Referente scientifico-organizzativo NRD

Dipartimento di Matematica e Geoscienze

Università di Trieste

One Reply to ““PROF., HO UN PROBLEMA DI CONNESSIONE…””

  1. Non voglio ripetermi anche in relazione a ciò che ho detto durante il Webinar qualche giorno fa, quindi preferisco concentrarmi su altri aspetti molto rilevanti, che io non ho toccato.
    Considero di grande interesse il contributo di Petter, sulla curiosità, che in qualche modo si collega anche alla distinzione tra quantitativo e qualitativo che non dovrebbe essere così netta come purtroppo appare spesso. Spesso parlando con i ragazzi mi dicono che a scuola devono imparare anche cose che non gli interessano, perchè se no rischiano il brutto voto, di essere rimandati o bocciati; che le cose che interessano, magari anche più pratiche, a scuola non sono trattate. In alcuni casi il tutto è stato inasprito dalla DAD, in altri pur essendo più incentrati sull’aspetto qualitativo, i ragazzi non hanno comunque trovato nulla “per cui valesse la pena seguire le lezioni” (perchè è di questo che si tratta in fondo, collegandoci in qualche modo anche al concetto di bellezza, se si pensa che la bellezza è ciò che ognuno ritiene bello, non per forza solo esteticamente, e quindi, interessante e degno di attenzione).
    In particolare riferimento alla DAD, trovo che questo equilibrio tra quantitativo e qualitativo sia quello che in parte ha causato tante difficoltà (soprattutto nei primi mesi ma ancora ora): c’erano insegnanti che volevano dimostrare che la DAD era possibile, che si riusciva a stare dietro ai programmi, e quindi si rischiava di focalizzarsi essenzialmente sull’aspetto quantitativo e chi invece si concentrava sull’aspetto relazionale, lasciando completamente in disparte il programma.

    Trovo, inoltre, di grande spunto per noi come volontari e per tutti i professionisti che hanno a che fare quotidianamente con bambini e ragazzi (ma in generale che si interfacciano con persone), le note conclusioni.

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