BENESSERE ORGANIZZATIVO CONSULENZA RELAZIONE D’AIUTO

Consulenza come relazione d’aiuto
Con il termine “benessere organizzativo”, negli ultimi anni si è soliti designare genericamente sia lo stato individuale degli abitanti una specifica organizzazione, sia quell’insieme di fattori vissuti dai lavoratori e da essi percepiti (climi e culture) che determinano o contribuiscono al loro star meglio nell’ambiente lavorativo.
Per questo, gli ‘esperti in benessere’ devono ( dovrebbero…) essere professionisti in grado di “leggere” i processi organizzativi e di individuare le aree di criticità psicologica e professionale attraverso strumenti di rilevazione come l’analisi del clima, la valutazione dei fattori di stress, l‘accertamento degli agenti di disagio motivazionale, sia di natura relazionale, sia operativa, sia strutturale e i fattori di richio.
Essere esperti di benessere organizzativo, in conclusione, non vuol dire sapersi sostituire ai manager in tutti i rami della gestione aziendale, ma vuol dire aiutarli e quindi avere la preparazione e gli strumenti per leggere e analizzare le situazioni contingenti, saper diagnosticare un clima organizzativo, sapersi orientare nell’individuare le aree critiche di intervento per migliorare la condizione prestazionale delle persone, saper pianificare, insieme ai responsabili degli enti, delle associazioni e delle aziende, un programma di sviluppo interno inteso a instaurare quel “ambiente generativo” indispensabile per ottenere una alta qualità dei risultati. Ma la cosa essenziale è saper mettere in atto questa relazione d’aiuto nei confronti di coloro che si rivolgono al consulente e via via verso tutti coloro che successivamente verranno coinvolti nell’intervento.
Non dimentichiamo che il benessere è l’espressione creativa autentica, sentita, sperata, ma anche intenzionale mirata e ovviamente comporta un progetto che in un’organizzazione si confronta con i desideri degli altri e con i bisogni di tutti. Se ricercare il malessere ci permette di ridurre i costi umani, esprimerci ci fa sperare in un cambiamento che ci renderà migliori. E’ un’espressione delle nostre potenzialità, emozionali e cognitive, talenti e competenze, affinità e curiosità in una sorta di proiezione di miglioramento futuro. Se per stare male basta attendere passivamente, per stare meglio è necessario uno sforzo iniziale, un’idea nuova, un progetto da realizzare.
Ogni ricerca di miglioramento richiede quindi una sfida, un coraggio e uno sforzo iniziale per affrontarla. Secondariamente ci accorgeremo che questo progetto non può evitare di incontrare bisogni, desideri, speranze e progetti di altre persone e in questo incontro/scontro potremo giocare l’inevitabile momento progettuale, complesso e paradossale che ci porterà verso la realizzazione di cose spesso non previste né immaginate prima.
Diventa poi lentamente chiaro che affinché ciò possa realizzarsi, è inevitabile occuparsi del benessere degli altri, di coloro che ci stanno più vicini, in un’ottica di allargamento futuro continuo. Per cui il consulente, l’operatore di benessere, troverà nella relazione d’aiuto il compito specifico per poter intervenire.
Il progetto in un’ottica di teoria del cambiamento non è quindi solamente uno strumento qualsiasi, bensì un’attività che si basa sulle capacità decisionali degli attori. Il progetto implica il superamento di un cambiamento casuale in un intervento, che non è casuale, ma intenzionale. L’uomo non ha un destino. Non abbiamo un destino preordinato e se anche lo avessimo, ragionando per assurdo, è impagabile la sensazione di essere noi stessi gli artefici di ciò che ci accade!
Tutto è modificabile, quindi, a patto che sussista la possibilità di un intervento possibile e quindi un progetto come base del nostro intervento. E’ una proiezione nel futuro e, se si vuole, una fuga dal presente, ma per aspirare al raggiungimento di una finalità mirata, più che sul prezzo da pagare per raggiungerla. Per così realizzare valori ispiratori del rifiuto della totalità del presente in vista di una migliore possibilità futura. Ma il progetto, anche se nasce da un ‘sogno’ o da una ‘speranza ludica’ deve essere un progetto concreto e a rischio controllato.
Tutto questo comporta poi un certo livello di stress che andrà gestito e controllato a sua volta perché i climi di entusiasmo, piena partecipazione e appartenenza non possono essere ‘tranquilli’ sereni e pacifici, ma euforici e autorealizzativi, autoespressivi, quindi anche questi spesso stressanti. Il problema è contenerci, controllare e gestire il desiderio, non reprimerlo, tantomeno annientarlo.
Il problema è prevedere dei tempi di recupero e di relativizzazione del tutto. Mi rendo conto che ciò va contro ad una letteratura ‘semplicistica’, anche scientifica, assai diffusa in questo periodo e che identifica benessere= basso stress = alta produttività, ma purtroppo non è così semplice. Ad esempio, non esiste sempre una bipolarità stress-benessere, come è vero che la massimizzazione della prestazione comporta spesso uno stress che a lungo andare può diventare distress anche se soddisfacente e appagante, proprio perché troppo soddisfacente ed appagante.
Comunque,in termini generali, cercare di migliorare e creare climi stimolanti l’apprendimento e la creatività, la sicurezza e la piacevolezza degli ambienti di lavoro, tendenzialmente favoriscono il miglioramento delle prestazioni, la qualità dei servizi offerti e l’autorealizzazione delle persone.
Più tradizionalmente, potremmo dunque sostenere che il benessere organizzativo si rifà alla capacità di un’organizzazione di promuovere o garantire il più alto livello di benessere fisico, psicologico e sociale di chiunque, qualunque sia la loro occupazione e in un ottica di miglioramento espressivo continuo.

L’intervento e il gruppo di progetto.
Nell’attuale scenario diviene sempre più importante la capacità delle organizzazioni di sviluppare al loro interno dei processi volti al miglioramento continuo, miglioramento delle condizioni di lavoro, clima e struttura, rivolto a quell’equilibrio ideale e futuro fra produttività e stato di salute, ovvero, benessere e cioè ‘la speranza progettuale’.
La qualità e la cura – l’amore se si vuole – è il motore e la strategia che ispira le scelte di tutte le organizzazioni e diventa l’amore per il lavoro, più frequente in un certo artigianato, difficilissimo o impossibile nelle catene di montaggio.
L’intervento che qui presentiamo mira a coinvolgere l’intera organizzazione e si prefigge fin dall’inizio di coinvolgere tutte le persone nel processo di miglioramento dell’organizzazione lavorativa, processo che permetterà di individuare una serie di aspetti sia di forza che di debolezza tali da favorire la creazione di differenziali di capacità interna al fine del miglior sviluppo dell’organizzazione del lavoro.
Questo comporta un nuovo modo di pensare, dove l’economia non è la sempre la variabile indipendente, dove il metodo di cambiamento è nel considerare il fattore soggettivo come centrale e affidabile, valorizzandolo, percependo quegli aspetti soft, immateriali, a volte non facilmente rilevabili, che permettano di realizzare una fotografia di alcuni aspetti fondamentali dell’organizzazione, sui quali poter poi intervenire, al fine di liberare quelle risorse e quelle energie preziose per la crescita e lo sviluppo.

Vogliamo qui iniziare a descrivere un percorso sull’intervento per migliorare il benessere organizzativo. Si è già chiarito come si tratti di un processo più che di un contenuto. E quindi inizieremo dal momento della consulenza, che dovrà ispirarsi ai principi del benessere come consulenza di un processo che porterà ad uno sviluppo organizzativo benestante.
Parliamo qui di intervento come azione che sappia affrontare i diversi problemi dei protagonisti di un cambiamento organizzativo, vincendo resistenze e difese sempre presenti anche in un’intenzione di miglioramento e offrendo così soluzioni altrettanto concrete, capaci di rappresentare al tempo stesso un’opportunità di crescita e personale dei singoli, non solo dell’organizzazione.
Quando trattiamo di consulenza di processo, ci ispiriamo in gran parte alle esperienze professionali e scientifiche di Edgar Schein, Enzo Spaltro e altri. Riteniamo infatti che questo tipo di approccio sia il più adatto a tale scopo, poiché il benessere non può essere un punto di arrivo dato e standardizzabile che può essere applicato a qualsiasi realtà lavorativa.
Non dimentichiamolo, il benessere è una dimensione soggettiva che solo il soggetto o i soggetti possono trovare tramite un aiuto dell’operatore di tale processo, che appunto aiuterà l’attore a trovare la strada verso l’invenzione di un proprio specifico benessere.
La consulenza di processo per il benessere organizzativo è difficile da descrivere con semplicità e chiarezza, ma ci proveremo, passo dopo passo, con un po’ di pazienza. Per questo inizieremo dalla particolare mentalità che l’operatore di benessere o consulente di processo deve avere per affrontare un tale percorso.
Possiamo quindi ritenerla, più che una filosofia, un vero e proprio sistema operativo a disposizione del consulente nelle diverse situazioni che si troverà ad affrontare.

Dobbiamo quindi ricordare che :
1) Il benessere è soggettivo e va inventato, a differenza del malessere, che va ricercato per rimediare ad esso.
2) la creazione del benessere richiede uno sforzo iniziale, un’energia, un progetto che attui un cambiamento.
3) il benessere di un soggetto va ricercato in termini diffusi: se io non penso a realizzare il benessere degli altri, non riuscirò a raggiungere il mio, ovvero il progetto è futuro, ma anche collettivo, organizzativo.

Per tali principi, dovremo seguire, come operatori-consulenti, una filosofia-metodologia che consta in una sorta di processo d’aiuto, che cercheremo di spiegare evidenziandone l’importanza per lo sviluppo e l’apprendimento organizzativo. Per cui, ispirandoci a Schein, l’atteggiamento dell’operatore dovrà

1) essere sempre d’aiuto
2) seguire in modo aderente la realtà che via via si presenta
3) riconoscere le proprie competenze e soprattutto i propri limiti, le carenze, le ignoranze
4) non dimenticare che qualsiasi azione o mancanza di essa costituisce un intervento, un influenzamento. Non dovremo quindi perdere mai di vista i vari attori e i loro atteggiamenti, anche nei confronti del progetto stesso
5) utilizzare il piccolo gruppo come mentalità, sede e tecnica più efficace di comunicazione, di apprendimento e di coinvolgimento nella dimensione organizzativa
6) verificare periodicamente il livello di aumento del coinvolgimento, la diminuzione eventuale dei costi del lavoro, il miglioramento del clima, l’andamento della produttività e così via
7) non dimenticare mai che la soluzione o punto d’arrivo anche parziale, appartengono sempre al sistema-cliente, non al consulente

Seguendo sempre lo schema di Schein, potremmo parlare di tre tipi di approccio che a seconda delle occasioni e delle necessità, saranno messi in essere, cioè:

1) fornire informazioni specialistiche, che si rifanno alle nostre competenze di consulenti-operatori;
2) dare soluzioni, saper fornire quindi diagnosi, prescrivendo rimedi dove possibile;
3) aiutare nel cammino il cliente (consulenza di processo vera e propria), senza imporgli una nostra soluzione predeterminata, ma portarlo a scegliere con la nostra complicità o meglio, il nostro aiuto e consenso.

Questi tre ruoli fondamentali non potranno che essere giocati continuamente uscendo dall’uno ed entrando nell’altro a seconda dei momenti e delle necessità nei vari cambiamenti della realtà.
Ovviamente dovremo sapere riconoscere bene in noi la valenza di tali competenze che possediamo o meno e in che misura.

I progetti si sviluppano in verità secondo vie a volte molto complesse e contorte. Non sempre siamo in grado di identificare semplici azioni sequenziali come ‘primo contatto’, ‘contratto psicologico ’, ‘diagnosi’, ‘intervento’…
L’incontro con il ‘cliente’ e lo svolgersi della relazione costituisce una situazione dinamica difficilmente prevedibile che si evolve con il diffondersi dell’intervento stesso ad altri attori e a causa anche di nuovi dati capaci di modificare le azioni successive. I ruoli di portatore di informazioni, di esperto e di consulente di processo vero e proprio si susseguono quindi, alternandosi continuamente. Nonostante ciò, innanzitutto è fondamentale instaurare fin da principio un contratto chiaramente articolato. Qui il problema è cruciale perché la natura del contratto e il cliente o referente che ci troviamo di fronte, a volte, possono cambiare costantemente, così che anche la definizione del contratto potrebbe diventare un processo infinito anziché un dato stabile che precede l’intervento vero e proprio.

Già il tema del benessere si presta ad una serie di fraintendimenti, semplificazioni, banalizzazioni, tentativi di manipolazione o altro, così da rendere difficile anche il primo contatto. Il primo attore che contatteremo è solo l’inizio di una serie di altri attori con cui si andranno poi a stabilire le prime mosse, ma anche con essi si dovrà trovare una sorta di consenso su alcuni principi di base che non saranno così chiari e scontati mano a mano che il sistema-cliente si espande.
Il benessere organizzativo deve tendere al maggior coinvolgimento possibile delle persone per creare inizialmente nel gruppo di progetto quella speranza e quel desiderio di realizzazione che sono alla base del benessere di un sistema umano. Non dimentichiamo che il benessere, qui considerato, non è uno stato di arrivo, ma una continua ricerca di miglioramento proiettata in un futuro che offre aspettative migliori dello stato presente. E’ questo l’atteggiamento che possiamo adottare per aiutare a creare, è lo specifico metodo di azione. Non possiamo raccontare che noi sappiamo bene qual’è la soluzione per la felicità degli altri. Possiamo solo aiutarli a far capire che vivere un clima di possibilità di intervento nell’organizzazione per migliorarla e averne la speranza è già di per sé un fatto benestante, comprese le resistenze e i problemi che il ‘gioco’ del cambiamento porta con sé.
Quindi, ripetiamo, inizialmente deve essere il più chiaro possibile il contratto con il sistema cliente. Deve essere ben chiaro che si basa sul nostro aiuto continuo, in un processo di ricerca che è del cliente e che noi cercheremo di chiarire, esplicitare, implementare, arricchire, non certo di imporre.
Allo scopo di chiarirsi in questo momento di primo contratto, le due parti devono imparare a conoscere i propri stereotipi iniziali relativamente alla situazione e impegnarsi comunque a far emergere tali stereotipi: Il primo problema è quindi creare una situazione che permetta un clima relazionale che possa facilitare una espressione libera delle diverse soggettive narrazioni relativamente alla problematica organizzativa. Chiederci perché ci hanno chiamato, cosa si aspettano, cosa proponiamo noi, cosa possiamo o non possiamo fare.
Chiarire molto bene perché vogliamo trattare proprio di benessere e che cosa intendiamo con tale concetto, cosa ci aspettiamo vicendevolmente. Qui è fondamentale che i clienti si sentano supportati e coinvolti in un ‘progetto’, almeno inizialmente, chiaro e non frainteso.
In questa fase le nostre domande sono fondamentali. Spesso ci chiamano solo per l’immagine generica che il nome ‘benessere’ porta con sé. Il rischio è che il cliente ne sia attratto solo perché ne vede una ‘spendibilità’ presso le proprie persone o nell’ambiente circostante. Quindi per qualcosa di propagandistico, come slogan per creare un’apparenza desiderabile socialmente e che non fa paura a nessuno. Altre volte si aspetta una ricetta applicabile come una ‘medicina’ facilmente applicabile. Oppure, altre volte ancora, vuole mettere a confronto i propri metodi con quelli prospettati dal consulente, soltanto quindi per una ricerca di rassicurazione da parte del cliente stesso. Qui invece il problema è far capire che il benessere è qualcosa da trovare, inventare insieme, in un processo che deve essere costruito passo passo con l’aiuto della consulenza.
Il consulente, ripetiamo, non ha la soluzione, ma aiuta il sistema-cliente a trovarne una, seguendo il più possibile i principi sopra esposti. Che possono e devono poi essere identificati in risultati, anche misurabili. Vedremo poi come.
E’ quindi importante fin da subito chiarirsi su questi aspetti con un colloquio, fra cliente e consulente, più aperto e sincero possibile. Questo dovrà essere ripetuto mano a mano che il gruppo di progetto si formerà, successivamente evolvendosi ed allargandosi poi nel proseguio e nella diffusione dell’intervento.
E’ fondamentale quindi che sistema-cliente e consulenti si rendano conto di come diventa importante un aiuto reciproco e continuo per poter andare avanti in modo efficace e proficuo.
Oltre ai principi indicati precedentemente non esistono quasi mai percorsi o tappe che devono essere rispettate come procedure o iter burocratici. Gli eventi, i climi, la multiforme narrazione dell’organizzazione che il gruppo di progetto si farà e riproporrà continuamente provocheranno una continua ridefinizione di metodi, strumenti e decisioni.
Stiamo trattando quindi di un processo di ricerca attiva che deve permettere sempre ai clienti di mantenere il controllo dell’operazione, sottolineandone sempre la posizione di attore di primo piano, facendo in modo che si sentano e che siano percepiti i solutori dei problemi in prima persona, anche se a volte certi suggerimenti dovessero arrivare dai consulenti.
La ricerca attiva comporta infatti la comprensione delle dinamiche psicosociali presenti in tale aiuto, che devono essere esplicitate, confrontate e fatte oggetto di attenzione, da fattori relazionali a dimensioni più squisitamente attinenti alla psicologia individuale.
Qui è importante distinguere tre livelli di ricerca: di base, diagnostica, di confronto.
Anche in questo caso sono le vicissitudini e gli accadimenti, quindi le esigenze situazionali che determineranno la scelta di una ricerca piuttosto che di un’altra.
Ribadiamo più chiaramente il concetto che, come il consulente deve evitare un rapporto di dipendenza dal cliente, così il cliente non dovrà essere lasciato, tantomeno indotto, in una situazione di inferiorità o di dipendenza relazionale nel rapporto con il consulente.
E’ frequente assistere a situazioni dove il consulente si pone in una situazione di sudditanza rispetto al cliente pur di non perdere il lavoro. Come viceversa a volte si assiste a tentativi di dominanza da parte del consulente che si avvale di alcune conoscenze non condivise, ma lasciate nel mistero, con l’obiettivo di mantenere il controllo su un rapporto che può essere fonte di prestigio e di lavoro e guadagno ulteriore..
Ci sembra importante affrontare anche questi aspetti, che sono anche deontologici, perché non è evitabile la problematica affettivo-relazionale fra consulente e cliente. Se qualcuno crede che si possa arrivare a forme di applicazione asettica, imparziale e tecnologica di metodologie che non facciano i conti con la valenza di emozione, sentimento, potere fra clienti e consulenti, si sta senza dubbio illudendo.
E’ una relazione come le altre. Difficile come tante altre, ma qui la correttezza massima non può essere lasciata al caso. Non dobbiamo contare su ‘seduzioni magiche’. Il benessere organizzativo si basa anche sulla massima chiarezza possibile, non solo iniziale, fra gli attori che via via entrano in gioco. Per questo deve essere riposta attenzione a ciò cha abbiamo chiamato la capacità di ‘riconoscere limiti, carenze, ignoranze…’.
Se infatti nel procedere dei lavori ci accorgessimo, in quanto consulenti, che la situazione richiede competenze che noi non possediamo, dobbiamo ricorrere a qualcuno che le possieda. Qui la logica del lavoro di gruppo si deve sentire fino in fondo. Non dobbiamo dimenticare che il nostro obiettivo è l’efficienza e l’eccellenza, quindi è importante massimizzare le risorse che abbiamo a disposizione. Se non sono sufficienti, possiamo consigliare di reperirle, non possiamo evitare di prendere il problema in considerazione, né ‘barare’ – come ho visto fare spesso – improvvisandoci ‘tuttologi’ che possono affrontare qualsiasi problematica anche pertinente ad altre discipline.
E’ sempre importante almeno dichiararlo e ‘confessarlo’. Su questo si gioca una corretta relazione che voglia veramente aiutare a risolvere i problemi. Che poi si debba affrontare una competitività sempre affiorante è normale, l’importante è gestire il conflitto che ne viene, salvaguardando sempre la bontà dei risultati e la correttezza nel rapporto, pena la perdita della credibilità e del proseguo della relazione d’aiuto. Si può anche perdere il lavoro, ma la relazione non può essere svilita. Molti sono d’accordo solo a parole su questo problema, ma in fondo ne va della nostra possibilità di restare sul mercato.
E’ ammesso certamente anche cercare di creare un ambiente allegro e simpatico nel gruppo di progetto, certamente avremo anche le nostre simpatie e antipatie, ma dovremo sempre fare attenzione ad una tendenziale equidistanza che, come consulenti, cercheremo di mantenere ascoltando tutti e incoraggiando tutti nell’esprimersi. Qui distinguere fra chi ci crede e chi no, può inficiare l’intero intervento. Comunque è auspicabile trovare momenti di euforia e di allegria. Sviluppare anche tali competenze, di cui non si parla mai, è importante anche negli ambienti di lavoro. Si dà per scontato che non sia possibile produrre modifiche in questo ambito, mentre si pensa che sia più facile far passare una persona da un atteggiamento individualista ad uno collaborativo. Non è proprio così. Cercheremo di parlare anche di questo perché nell’intervento rivolto al benessere e al bellessere, è più importante di quanto si possa credere.
Ricordiamoci che è normale poi che si incorra in errori. Il problema è fare in modo che sempre vengano dichiarati e analizzati, venendo infine a configurarsi come elementi utili per ogni forma di apprendimento.

Gianni Marocci

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