Francesca Bertani incontra Maurizio Bove, Presidente di ANOLF (Associazione Nazionale Oltre Le Frontiere) Milano, Promossa dal Dipartimento Politiche Migratorie di CISL Milano Metropoli.

Qual è la situazione dell’immigrazione oggi in Italia?
Negli ultimi anni non ci sono stati grandi cambiamenti rispetto ai flussi migratori. La situazione è tendenzialmente stabile, ci attestiamo attorno ai 5 milioni di stranieri regolarmente soggiornanti sul nostro territorio, a cui va aggiunta una quota variabile di irregolari senza permesso di soggiorno che si stima intorno alle 450.000 persone. L’Italia non è più una delle mete maggiormente appetibili, soprattutto per quanto riguarda gli ingressi per motivi di lavoro. Anzi, i dati dicono che ultimamente il saldo è negativo, cioè escono più persone di quelle che entrano in Italia, e il flusso in uscita riguarda sia i cittadini italiani che stranieri. Quindi è un’immigrazione più o meno stabile e di lunga durata, infatti il 60% delle persone ha un permesso a tempo indeterminato e aumentano le richieste di cittadinanza italiana, che prevede dieci anni di residenza regolare come requisito base, più almeno due o tre anni per ottenere risposta all’istanza, quindi si tratta di persone che sono qui da almeno tredici anni.
Quali sono i canali d’ingresso regolare per i cittadini extracomunitari?
I visti di breve durata per turismo continuano a essere richiesti, anche se spesso vengono rifiutati, ma una volta scaduti, bisogna tornare nel proprio Paese. I visti che consentono di rimanere in Italia, sono o il ricongiungimento famigliare o il lavoro. Gli ingressi per il ricongiungimento familiare restano costanti, a conferma ulteriore di un’immigrazione stabile, ma questo dipende anche da un’altra cosa. Il visto per il ricongiungimento in realtà è l’unico visto d’ingresso che consente di arrivare regolarmente in Italia e di restarci per un periodo superiore ai 3 mesi. È l’unico rimasto. Visti d’ingresso legali e regolari per motivi di lavoro, ad oggi non ce ne sono. I flussi ormai sono molto limitati a categorie come gli stagionali e pochissimi lavori altamente specializzati, per cui se voglio chiamare una collaboratrice domestica o un’assistente familiare non lo posso fare. Ma per tutti quei lavori che abbiamo totalmente appaltato agli stranieri, come l’assistenza agli anziani e il babysitteraggio, l’Italia resta ancora un paese attrattivo. Quindi le persone entrano lo stesso con visti turistici, e se trovano qualcuno disposto a dar loro un lavoro, magari attraverso una rete di conoscenze, si fermano. Ma anche in questo caso, non esiste nessun meccanismo che mi consente di mettere in regola una persona nel momento in cui le ho dato un lavoro. Una delle chiamate più frequenti che riceviamo è quella da famiglie che ci dicono: ho conosciuto questa persona, ci piace, come facciamo a metterla in regola? E noi dobbiamo rispondere che non possono farlo. Per i cittadini extracomunitari, non esiste un dispositivo normativo che permetta l’incrocio tra domanda e offerta direttamente sul territorio. In un paese come il nostro, dove il passaparola e la conoscenza sono uno dei canali fondamentali di accesso al lavoro, non abbiamo una norma che permetta di far emergere il lavoro nero. I 450-500.000 irregolari di cui parlavo sono irregolari non perché vogliono esserlo, ma perché non esiste una norma in grado di regolarizzarli. Il risultato è lavoro nero, soprattutto in certi settori dove la manodopera viene richiesta, settori che poi ovviamente finiscono per essere percepiti di serie B dagli italiani perché poco pagati e con condizioni al ribasso.
Quanti sono gli italiani ancora interessati a questo tipo di occupazioni, ad esempio l’agricoltura?
Io non vedo assolutamente le file. E poi ci dicono che gli stranieri ci tolgono il lavoro… Sicuramente c’è un lieve aumento di percentuale di lavoratori italiani, non tanto nell’agricoltura però: si parla di ritorno all’agricoltura ma non è un ritorno a fare la raccolta dei pomodori e delle arance, è un altro tipo di ritorno alla vita bucolica, ad esempio con l’agriturismo. C’è un aumento, ma in percentuali comunque minime, di donne italiane che si occupano di lavori domestici o di assistenza familiare, ma il 90% di lavoratori e lavoratrici di questo settore, se non di più, sono stranieri.
È vero che molti lavoratori stranieri si iscrivono ai sindacati?
Sì, un dato realistico dice che un terzo degli iscritti alla Fisascat Milano, la nostra categoria del commercio è di cittadinanza non italiana, un po’ perché vengono seguiti settori come la ristorazione, il lavoro domestico, l’assistenza agli anziani, le residenze sanitarie assistenziali, dove la maggior parte dei lavoratori non sono italiani. E poi il sindacato è uno di quei pochissimi luoghi dove hai davvero un esercizio totale del tuo diritto di cittadinanza, perché puoi eleggere e essere eletto, sei alla pari con tutti gli altri lavoratori, conti per quello che vali. Il dato parla di circa un milione di lavoratori stranieri a livello nazionale iscritti ai sindacati.
In diverse occasioni, Lei ha parlato della necessità di superare la logica dell’emergenza con cui viene affrontato il fenomeno dell’immigrazione…
I 5 milioni di stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro Paese, che sono il 95% del fenomeno immigrazione in Italia, sono completamente dimenticati, se non per questioni di nicchia come lo Ius Soli su cui si scatena il dibattito. Di questi 5 milioni non parla nessuno, perché l’attenzione mediatica, la campagna elettorale e tutte le risorse sono completamente concentrare sul restante 5%, parliamo di 270.000 persone circa tra richiedenti asilo e rifugiati in Italia in questo momento. Certamente è un fenomeno importante, che però non è assolutamente emergenziale dal punto di vista dei numeri e non giustifica assolutamente il termine ‘’invasione’’. L’ultimo dossier statistico sull’immigrazione conferma un 4×1000 di incidenza sulla popolazione italiana. Quando vado nelle scuole, la prima cosa che mi dicono è che siamo invasi. Quello che restituiscono i ragazzi è la percezione del fenomeno attraverso gli organi di stampa, non la realtà del fenomeno. Quindi cos’è l’immigrazione? Sono i barconi che arrivano. Poi cominci a farli ragionare su quanti siamo noi, 60 milioni, su quanti sono i cittadini stranieri, 5 milioni, su quante sono 270.000 persone, e su quanto è anche un flusso di 150-170mila persone all’anno che arrivano in Italia rapportato a quanti siamo noi e agli 8000 comuni in Italia, proprio con la calcolatrice alla mano. L’emergenza in realtà è in noi, nel fatto di non riuscire a gestire questo fenomeno. In Italia non lo gestiamo bene, e alcuni paesi europei mettono veti molto pesanti sulla cogestione del fenomeno. Se ci fosse davvero una cogestione dell’accoglienza, con percorsi di integrazione, avremmo molto meno clamore.
Di per sé, quindi, l’immigrazione non sarebbe un problema …
L’immigrazione non è il problema, ma è un potentissimo evidenziatore di quelli che sono i nostri problemi di Paese. In qualche modo, quello che si vuole fare è creare due mondi paralleli: l’Italia può andare avanti così, con tutti i problemi incancreniti che ci portiamo dietro da anni, ma per quel riguarda il mondo dell’immigrazione, la piccola Italia degli immigrati, noi vogliamo il mondo perfetto, dove non ci siano evasione fiscale e lavoro nero, tutto regolato come se fosse il migliore dei mondi possibili. Ma se le condizioni che offri a chi arriva in Italia sono quelle dell’evasione, del lavoro nero, del Welfare che viene scaricato sulle famiglie, non puoi pretendere un mondo perfetto per loro. Poi non c’è una solidarietà che spinga a cogestire il problema. Quando viaggio all’estero e mi guardo in giro vedo una cosa che noi non abbiamo, il senso di stato, di appartenenza a una nazione. Gli altri dicono: noi siamo francesi, tedeschi, olandesi. Qui diciamo: io sono siciliano, lombardo. Fa parte della nostra storia, però incide. C’è un accordo nazionale con tutte le prefetture a livello di gestione dell’accoglienza, ma ogni sindaco può svegliarsi la mattina e dire io non li voglio, perché oggi l’accordo è su base volontaria e non vincolante.
Quali percorsi di integrazione sono previsti per chi arriva nel nostro Paese?
Tutto è molto concentrato sul contenimento e sulla gestione degli arrivi, ma sulla parte di integrazione, sul far sentire le persone parte del nostro Paese fino alla concessione della cittadinanza, ad oggi non esiste nulla. Non c’è attenzione alla permanenza. Chi decide di restare qui ha di fronte un percorso ad ostacoli. Per mettersi in regola il cammino è pieno di trappole, pieno di possibilità di tornare indietro all’irregolarità, bisogna continuare a spendere soldi e produrre documenti per rinnovare il permesso e poi magari si torna al via come nel Monopoli.
Una buona quota di irregolari è data dagli irregolari di ritorno, persone che, soprattutto in questi anni di crisi, non sono riuscite a rinnovare il permesso di soggiorno perché hanno perso il lavoro o non hanno più un reddito sufficiente a garantire il mantenimento di sé e delle propria famiglia. Ma non è che tornano a casa, restano qui da irregolari aspettando la prossima sanatoria per rimettersi in regola. Indietro al via, si ricomincia da capo. È un esame continuo che finisce solo con il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Per quanto riguarda il 5% di stranieri che si trovano in Italia, quindi i richiedenti asilo, bisogna superare la fase di accoglienza emergenziale e prevedere anche dei percorsi di graduale integrazione, che passano anzitutto dal lavoro. Il lavoro è una delle componenti attraverso le quali ci si integra.
Proprio in quest’ottica si muove Labour-Int, progetto europeo promosso in Italia come azione pilota da Anolf e Fisascat Cisl Milano, con l’obiettivo di favorire l’inserimento lavorativo e l’integrazione di rifugiati e richiedenti asilo. Com’è nato il progetto?
L’idea è partita da un nostro viaggio a Lampedusa. Abbiamo voluto conoscere da vicino il fenomeno e abbiamo visto che appena le persone arrivavano erano felicissime di essersi salvate, però poi, se andavi nei centri di accoglienza e parlavi con le persone che erano lì da qualche mese, vedevi la disperazione di chi vuole guadagnare soldi e mandarli a casa alla propria famiglia, perché lo scopo del viaggio è anche quello, ed è costretto a stare fermo lì, trattenuto senza poter fare nulla. Tra la domanda come richiedente asilo e la risposta da parte della commissione, passa almeno un anno, per cui abbiamo pensato di costruire un micro progetto per intervenire in questi lunghi mesi di attesa.
In che cosa consiste il progetto?
Si tratta di fornire a queste persone una formazione di carattere generale e professionale, in modo da dare delle competenze spendibili nel mercato del lavoro, e poi cercare di costruire un’alleanza tramite la categoria del commercio, soprattutto con gli enti bilaterali costituiti da datori di lavoro e lavoratori, per inserire le persone in tirocini eventualmente finalizzati all’assunzione in azienda.
Chi sono i beneficiari?
Il progetto è rivolto a 40 persone, tra richiedenti asilo e rifugiati, perché è un micro progetto, che però ha due valori aggiunti: è replicabile e mette in rete non soltanto le forze sociali ma anche gli imprenditori, tentando di creare sinergia per poi fare inserimento lavorativo. È rivolto ai maggiorenni, che in genere sono comunque molto giovani. Stiamo cercando di porre attenzione sulla questione di genere, quindi puntiamo al fatto che ci sia una buona rappresentanza femminile, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di uomini richiedenti asilo.
È possibile iniziare il percorso appena arrivati in Italia?
No, ma dopo 60 giorni dalla richiesta d’asilo, si può lavorare. Il grosso punto di domanda sta poi nell’esito della richiesta, nel senso che è capitato più di una volta che persone immesse in percorsi di inserimento lavorativo, magari anche assunte, magari anche a tempo indeterminato, poi ricevono la risposta del ministero che non riconosce la loro domanda, e quindi queste persone tornano irregolari. Noi vorremmo utilizzare questo progetto, almeno su Milano, anche per replicare un’esperienza che già c’è su Torino, dove imprenditori, sindacati e associazioni hanno fatto davvero rete, e dove c’è stato un intervento degli imprenditori che hanno detto: noi abbiamo formato queste persone, le abbiamo assunte, abbiamo speso dei soldi, quindi ce le vogliamo anche tenere. In modo che, nel momento in cui ci sono delle situazioni di formazione, tirocinio, inserimento lavorativo di una persona, non si faccia crollare tutto sulla base di un permesso di soggiorno che non viene concesso.
Qual è il calendario del percorso formativo?
A gennaio c’è la formazione, con una prima parte di carattere generale dal punto di vista dell’italiano, oltre a salute e sicurezza, diritto del lavoro, normativa italiana in materia di immigrazione e competenze trasversali. Poi si parte con una formazione tecnica e linguistica più specifica basata sul settore professionale in cui si potrebbe essere inseriti, per passare alla fine al tirocinio. Il tutto deve concludersi nell’arco di sei mesi, indicativamente a luglio.
In quali settori si può svolgere il tirocinio?
Visto che parliamo di Fisascat come categoria, e gli enti bilaterali sono quelli del commercio, fondamentalmente è il terziario: servizi, turismo inteso come ristorazione etc.
Rispetto al tirocinio, esistono delle forme di tutela?
È previsto un tutoraggio da parte del Comune di Milano, quindi ci sarà una relazione continua tra le aziende, noi e il Comune, in modo che le persone siano accompagnate e che sia dato supporto non solo a loro, ma anche all’azienda, perché bisogna creare un ambiente disponibile all’accoglienza. Dopo i 3 mesi previsti, o l’azienda decide di assumere la persona o il tirocinio comunque finisce.
Il progetto prevede anche la valorizzazione di competenze ed esperienze individuali?
Assolutamente sì, è uno dei valori aggiunti del progetto. Cercheremo di valorizzare le competenze pregresse, cercando anche di certificare quelle acquisite. Ma si parte da quelle che ciascuno porta con sé dal proprio Paese. Bisogna sfatare il mito che tutte le persone che arrivano in Italia sono analfabete. Non è assolutamente vero, anzi spesso abbiamo dei profili mediamente alti
Chi si occupa della selezione dei candidati?
Il CELAV, il centro di mediazione al lavoro del comune di Milano. Chi vuole candidarsi, può inviare il proprio CV al Celav, oppure ad Anolf che lo segnalerà come possibile beneficiario del progetto.
Per maggiori informazioni:
CELAV, via San Tomaso 3 (Mi), tel. 02 88468147, fax 02 88445913
ANOLF, Via Benedetto Marcello 10 (Mi), tel. 02 20408142, anolf.milano@gmail.com