UVI ha sorprendentemente prodotto una prassi educativa efficace anche in un contesto lontano dalle abitudini e dalla missione associativa: il carcere.
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UVI, nei suoi molti anni di vita, è venuta via via a formarsi come tempo e spazio dove apprendere gli strumenti utili e necessari a condurre un’esistenza, per quanto possibile, degna di essere vissuta. Bambini e ragazzi hanno bussato alla nostra porta portandoci in dono le loro fragilità. Fragilità che, insieme, abbiamo cercato di trasformare in opportunità di crescita.
“Una vita difficile non è una colpa ma non dovrebbe neppure essere un alibi”. Di qui l’impegno teso a valorizzare le competenze spontanee inespresse dei nostri giovani compagni di viaggio. Un processo (un programma di didattica esistenziale) che consenta l’articolarsi di un più robusto e ben orientato impianto motivazionale, il più delle volte indebolito dagli insuccessi, per esempio scolastici.
“Se la vita non mi aiuta, sarò allora io ad aiutare la vita” è scritto sulla bandiera che sventola sui nostri palcoscenici.
UVI è una scuola di concretezza dove i manuali cessano di essere manuali per trasformarsi in pagine di vita e di emozioni vissute. Un’avventura che vede bambini e ragazzi registi di un destino dove l’importante non è arrivare primi ma essere ciò che si desidera essere.
Con sorpresa ci siamo accorti che UVI ha prodotto una prassi educativa che si è dimostrata valida anche in un contesto che non rientra nell’operare associativo quotidiano: il carcere, tempo e spazio dove giovani trascorrono parte della propria vita in conseguenza di azioni penalmente rilevanti. Certo, sappiamo che la devianza è la dichiarazione di un bisogno ma il più delle volte si tratta di bisogni non soddisfatti e che non possono realisticamente essere soddisfatti. Ecco allora che i nostri bimbi-poeti, prima che l’educazione li trasformi in adulti-adulterati, ci hanno suggerito precisi moduli di interazione socio-comunicativa. E così, nella piccola biblioteca di un carcere milanese, qualche anno fa, si è riunito un piccolo gruppo di detenuti-poeti che si è dato un obiettivo: realizzare un reportage che illustrasse (quasi: dipingesse a parole) vissuti, sensazioni, speranze collegate a ciò che si era, si è, si vorrebbe, in futuro, essere. Nulla di meglio che farsi accompagnare da una nutrita folla di poeti: Quasimodo, Ungaretti, Montale, Caproni, Saffo. Se ne sono sfogliate le pagine, declinandone il senso nel pieno del proprio momento storico, dove l’essere prigionieri favorisce l’evasione del pensiero e della mente. Ed ecco il risultato:
Sono uno come tanti,
Operaio di sogni infranti.
E ora sfoglio le pagine del tempo
dove seminavo gocce di speranza.
Penso alle nuvole guerriere
E alla mia voce
(Allora)
Silente e muta.
Ma oggi?
Apro l’anfora
Sigillata con fili di rugiada.
Vi scopro futuri inattesi e vivi,
Intrecciati con lacrime di vento.
Nelle isole di cielo:
- La mia tristezza
- Il mio pianto di luce
Nei miei occhi è nata una foresta di pensieri.
E il mio cuore d’uragano
Canta e sorride.
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E ancora e oltre (l’appetito vien mangiando…)
Saluto rispettoso alla pena e alla colpa.
Saluto Educatori e Educatrici
E il loro sapere utile e inutile.
E gli Agenti che – chi più e chi (molto) meno –
Hanno fumato insieme a noi il tempo trascorso.
E le porte di ferro pesante, le sbarre, le chiavi dorate.
Saluto i rimpianti, le ansie, i dolori e le attese.
E gli spicchi di cielo, le nuvole, i raggi di sole.
I sogni e i pensieri che niente e nessuno
Ha potuto mai imprigionare.
Saluto i Sacerdoti della Legge: giudici, magistrati, avvocati.
E la Giustizia, giusta e ingiusta.
Saluto il respiro del vento e le mura di cinta.
E tutti voi, prigionieri liberi nella città.
Abbraccio l’immagine di una vita diversa.
Saluto speranze e illusioni.
E il sentirmi comunque responsabile (non colpevole)
Dell’aver agito e del non aver agito.
Dell’aver tenute prigioniere le parole
Nel carcere della mia mente.
Saluto gli oggetti e le piccole cose di ogni giorno.
Saluto i saluti, gli sguardi e le strette di mano.
Il vagone è ormai fermo sul marciapiede della stazione.
Scendo.
E salgo sulla corriera di una vita di cui sarò regista.
Per mettere in scena sui palcoscenici
Pubblici e privati
I mondi, le culture, i linguaggi, i valori
(E i non valori) conosciuti sfogliando le pagine
Della luce, della notte e del tempo vissuto
Dove – a volte – vivere è sopravvivere.
Un Regista / Attore capace di smussare gli spigoli
Di un’esistenza che, da nemica, può e deve farsi
Amica.
E colorata di affetto e di colori tenui.
Dal carcere (d’altronde, “Ce n’è più libertà in carcere o in città? / Non ce n’è libertà: è carcere tutta la città”) voci che potrebbero suggerire forma e contenuto di nostri particolari Reportage che rendano conto dell’avventura associativa, descrivendone soprattutto l’animarsi emotivo. Chi lo desidera potrà allora riunirsi, di tanto in tanto, nell’ipotetica biblioteca UVI, la nostra farmacia del pensiero. Per raccontare e raccontarsi. Le porte sono aperte.
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