La Pace – ce lo racconta Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa) – si è nascosta in un antro dal quale si rifiuta di uscire: non è più disposta a tollerare le nefandezze belliche che caratterizzano il contrapporsi di schiere umane, che, al tempo cui si riferisce Aristofane, riguardava l’ostilità tra Sparta e Atene. Trascorso qualche millennio, pare che la situazione abbia caratteristiche analoghe: anche ai giorni nostri, la Pace se ne sta in disparte, offesa e irritata. Molti poeti, scrittori, cantastorie, di fronte all’antro, si sono prodigati nel tentativo di convincerla a far capolino, magari sorridendo. Impresa difficile, se non addirittura impossibile, date le guerre in atto nelle più svariate parti del mondo, comprese le molte morti in conseguenza del tentativo di allontanarsene.
Luca Calzolari – Direttore del mensile Montagne 360 – intitola il suo “pezzo”, Avvoltoio vola via (Montagne 360, Rivista del Club Alpino Italiano, Aprile, 2022):
«Dove vola l’avvoltoio? Avvoltoio vola via. Vola via dalla terra mia, che è la terra dell’amor […] È una canzone contro la guerra scritta da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici. Entrambi facevano parte del collettivo Cantacronache, nato a Torino nel 1957. Insieme a loro c’erano scrittori, poeti e musicisti tra cui Michele Straniero, Fausto Amodei, Emilio Jona, Gianni Rodari, Franco Fortini, Umberto Eco e altri ancora […] Il testo scritto da Italo Calvino è terribilmente e drammaticamente attuale […] Già, perché si è tornati a parlare di guerra. Anzi, a viverla […] Al di là dei vincitori e dei vinti, c’è qualcuno che sarà sempre e comunque vittima. Ma chi, nelle trincee della prima guerra mondiale, ha cantato per chiedere la pace? Non gli ufficiali ma i fanti combattenti che si sono trovati a vivere l’inferno. Erano pastori della Sardegna, pescatori della Sicilia, contadini delle Langhe. Per la maggior parte giovani, in gran parte poco o nulla alfabetizzati. Eppure ci risiamo, come se quelle parole cantate e quel sangue sparso e quelle vite spese non fossero state sufficienti a farci capire che un tale orrore non avrebbe più dovuto ripetersi […]».
E invece…Ecco perché la Pace se ne sta rintanata, distante e indisponibile.
Anche Trilussa (1871 – 1950), nel 1914, con la sua Ninna Nanna, ha tentato di risvegliare le coscienze:
Ninna nanna, pija sonno/ché se dormi nun vedrai/tante infamie e tanti guai/che succedeno ner monno/fra le spade e li fucili/de li popoli civili” […] “La gente che se scanna e che s’ammazza per un matto che commanda e a vantaggio di una fede per un Dio che nun se vede ma che serve da riparo ar sovrano macellaro […]”
«È cambiata la tecnologia bellica, non certi istinti dell’animo umano. “Le spade e li fucili” di ieri sono i missili ipersonici e le bombe termobariche di oggi, ma chi li maneggia – o li fa maneggiare – produce il risultato noto di ogni guerra», chiosa il cronista.
Luca Bassanese ricorda che “Dalla seconda guerra mondiale in poi, oltre il 90% dei caduti sono civili, in metà dei casi bambini. Questi sono gli effetti dei conflitti moderni, i cui teatri non sono più trincee o campi di battaglia, ma città, villaggi, scuole e ospedali” e canta «Soldati buoni, soldati cattivi, dipende solo da che parte lo scrivi e in mezzo a loro, uomini, donne e bambini cadono a terra come aghi di pini […] Ogni guerra è solo un grande affare […] Ma Juri, perché stai a sparare? Non vedi che è tuo fratello quello che sta lì a morire?».
Un ragionare che attualizza il punto di vista di Trilussa, di Italo Calvino e di Fabrizio De André, con il suo “Girotondo” (1968):
«Se verrà la guerra, sul mare e sulla terra, chi ci salverà? Ci salverà il soldato che non la farà [e invece…] Ci salverà il buon Dio, lui ci salverà. Buon Dio è già scappato, dove non si sa; buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà [Che si sia nascosto, come si nasconde la Pace, in attesa di tempi migliori?]
Stando così le cose, Masud Khan (AA.VV., Il pensiero di D.W.Winnicott, Roma, Armando Armando,1977) suggerisce come “leggere” i drammi esistenziali che oggi come ieri siamo chiamati a vivere e gestire: “ Scrivendo alla Contessa M., il 10 marzo 1821, Rainer Maria Rilke [1875 – 1926] esprimeva un sentimento che, in modo più modesto, è vero per tutti noi. Rilke diceva: «In definitiva ciascuno di noi sperimenta nella vita un solo conflitto, che riappare costantemente sotto forma diversa». Ciò che per Rilke era un “conflitto”, nella mia esperienza di vita è stata la preoccupazione del rapporto di una persona con se stessa. Metterò qui a fuoco un’area piuttosto intima, non conflittuale e personalizzata dell’auto esperienza, cioè il rimanere a maggese […] Voglio dire che lo stato d’animo che sto cercando di discutere non è né inerzia, vacuità indifferente o vana quiete di spirito né una fuga dalla determinazione tormentata o dall’azione pragmatica. Il rimanere a maggese è una situazione transitoria dell’esperienza, un modo di essere che è calma vigile e coscienza ricettiva, sottilmente desta […] Si tratta di una funzione del processo di personalizzazione dell’individuo umano […] Oggi viviamo in società eccessivamente pragmatiche e spietatamente evangeliche in cui tutto si fa per l’individuo per mezzo dello stato e dei politici, sociologi e psichiatri, psicoanalisti e guitti. L’eccessivo zelo con il quale ci si propone di liberare e confortare l’individuo ci ha fatto forse trascurare alcuni dei fondamentali bisogni della persona; di essere cioè appartata, non integrata e rimanendo così a maggese […] Tuttavia, non dimenticando che nell’abiezione della povertà nessuno può rimanere a maggese […] Riassumendo, lo stato di maggese è: 1) uno stato d’animo transitorio e fugace; 2) una condizione intellettuale non conflittuale, non istintuale e acritica; 3) una capacità dell’Io; 4) uno stato d’animo vigile e attento: non integrato, ricettivo e instabile; 5) in larga misura si esprime con il linguaggio non verbale e immaginifico-cinestetico. Andrei anche oltre con il dire che lo stato di maggese è largamente vissuto ed espresso soltanto in silenzio, tacendo anche con se stessi. È comunque più riferibile all’espressione pittorica piuttosto che all’articolazione verbale. Per esempio, il fare ghirigori può essere uno strumento del tutto adeguato […]”.
In quest’ottica, la capacità di rimanere a maggese in quiescente solitudine anche in presenza dell’altro, assume i connotati di requisito indispensabile e fondamentale.
Il che, discretamente, rinvia al concetto di “ospitalità” e di “pensiero ospitale”. Gianni Marocci (Gianni Marocci, Ospitalità, Roma, Edizioni Psicologia, 1996) ricorda come il termine “ospitalità” derivi probabilmente dal termine “nemico”, hostis in latino: “Estraneo, forestiero, nemico; il significato originario è letteralmente «fuoriuscito, che è uscito dal proprio paese (Giovanni Semerano)».
Il nostro ragionare intorno allo stare in quiescente solitudine anche in presenza dell’Altro, comporta quindi il rischio che l’Altro possa essere percepito e vissuto come Nemico. Scrive Marocci: «Ospite viene definito sia chi ospita sia colui che viene ospitato. Questa ambiguità nasconde il disagio della relazione, del conflitto potenziale e si basa sulla minaccia dello straniero da una parte e sul disagio del viandante dall’altra. L’ospite, lo straniero, è sacro perché sappiamo bene il disagio del non abitare, la non significanza, per lui, della nostra casa ma nasconde anche il nostro disagio, come minaccia di essere in un certo senso contaminati, usurpati delle cose che sentiamo nostre […] L’Io incontra l’Altro, ma lo straniero arrivante è un Alter-ego. Incontriamo l’altro nelle sembianze di uno straniero. Incontriamo noi stessi in una sorta di sdoppiamento. Mi accorgo che il passante è così vicino a me da essere me stesso».
Una prospettiva perturbante: il primo nemico, a volte invincibile, dal quale facciamo di tutto per difenderci, siamo noi stessi. Ed ecco, in conclusione, riaffiorare il punto di vista di Masud Khan, che possiamo far, per un momento, nostro: ciò che per Rilke era un “conflitto”, nella nostra esperienza di vita è la preoccupazione del nostro rapporto con noi stessi.
Nella turbolenza dell’essere al mondo (in questo nostro belligerante mondo) il conquistare la pace con se stessi diviene esperienza vitale e irrinunciabile.
Chi fa la guerra non è in pace con se stesso.
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