Leggendo le parole che l’uomo dice al suo terapeuta al primo incontro, la prima considerazione che colgo riguarda la forte somiglianza con quanto espresso nel Quelet 1, vv 1-3: “Tutto è vanità in questo mondo. Parole di Qoelet, figlio di Davide, re di Gerusalemme. Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto al sole?”. Sono parole forti, con carattere apparentemente pessimista; molti teologi hanno criticato l’autore tacciandolo di scetticismo, edonismo e pessimismo. Eppure, con le sue parole e il suo argomentare, Qoelet vuole affrontare il tema non facile del significato della vita umana.
Ora, cosa c’entra una riflessione sul testo biblico col Bonus Psicologo di cui tanto si discute in questi giorni? Io credo che in queste parole possiamo trovare qualcosa che va oltre una diagnosi o una terapia: la prima cosa che tutti, pazienti ed educandi ci portano, è la richiesta di dare un nome, un significato alla loro esistenza e al loro dolore.
Sono un’educatrice professionale e per anni ho lavorato nelle comunità educative per minori. Ricordo bene quando N., un ragazzino di 16 anni, era arrivato a porre queste domande. Veniva da una famiglia apparentemente normale, in realtà troppo impegnata a lottare per restare unita e per sopravvivere giorno dopo giorno per vederlo davvero e per colmare il suo immenso bisogno di affetto. Così N., da bambino invisibile e trascurato, si era trasformato in un adolescente ribelle e collerico, e trovato il modo di colmare il suo bisogno di essere amato entrando in una baby gang. Quando è arrivato in comunità doveva sostenere la messa alla prova, dopo essere stato arrestato per rapina e spaccio.
All’inizio era ben protetto e rinchiuso nella sua corazza da duro; poi, dopo settimane di lavoro d’equipe, riuscì a sciogliersi e a dire per la prima volta: “Niente ha senso in questa vita. L’unica cosa che sento è un grande vuoto”.
La chiave di volta per aiutare N. è stata quella di renderlo protagonista assoluto del suo percorso. Certo, non sono mancate le infinite discussioni perché non voleva seguire le indicazioni date, gli scoppi d’ira, le notti in cui veniva in ufficio per parlare e per narrarsi, scoprendo il piacere per la prima volta di essere ascoltato. Così dalla posizione iniziale determinata a non voler iniziare una psicoterapia è passato al non vedere l’ora di iniziare le sue sedute. Anche il volontariato ha giocato un ruolo cardine perché, per la prima volta, era lui a fare qualcosa di importante per gli altri. Per la prima volta sentirsi forte non voleva più dire intimidire o minacciare, ma aiutare e sentirsi benvolere.
Soprattutto, riconoscersi persona ha permesso a N. di riconoscere la dignità e il valore di ogni persona, tanto da richiedere la possibilità di chiedere perdono personalmente alle proprie vittime.
In sintesi, io credo che il bonus psicologo sia un buon inizio per riconoscere quanto sia importante la salute psicologica di ognuno. Tuttavia, credo sia altresì importante non limitarsi ad esso, bensì occorra fare il possibile per rendere psicologicamente sane le realtà in cui vivono molti ragazzi. In troppe famiglie (e perfino in troppe scuole) bambini e ragazzi sono invisibili, e nel momento in cui cercano con rabbia di farsi notare vengono subito tacciati di essere violenti, aggressivi, in alcuni casi addirittura definiti casi persi proprio da chi dovrebbe fare il possibile (e l’impossibile) per comprenderli e valorizzarli. Il rischio da evitare a tutti i costi riguarda la medicalizzazione eccessiva della persona: ovvero che la presenza di uno psicologo diventi l’alibi per quanti si occupano del minore (insegnanti, Educatori, genitori, familiari, etc.) per abdicare dalle proprie responsabilità educative. In quest’ottica il bonus psicologo rischia di veder manipolata e distorta la propria valenza, rendendo la figura dello psicologo stesso snaturata della sua valenza terapeutica e paragonabile a una sorta di sciamano guaritore che opera prodigi miracolosi.
Allora non spaventiamoci quando pazienti o educandi vengono a dirci che niente ha più un senso e che un grande vuoto li sta opprimendo: ascoltiamoli e cerchiamo di dare insieme un significato alla nostra esistenza.
STEFANIA VACCARINO