Chiara Tronconi – responsabile della comunicazione UVI – ci propone una riflessione di assoluta attualità, proponendo un preciso schema di ascolto partecipato delle vibrazioni emotive espresse dalle vittime di una violenza che il più delle volte vede padri che uccidono le madri. Violenza assistita e drammatica, cui si oppone un’articolata strategia didattico-pedagogico-educativa. La questione è infatti e soprattutto di ordine culturale e in questo senso insegnanti, educatori, volontari, psicologi in formazione o meno, sono impegnati quotidianamente in una speranza che si fa certezza: bambini e ragazzi educati al rispetto di se stessi e degli altri, non saranno adulti adulterati e violenti. Una battaglia che vede da sempre impegnata e coinvolta UVI tutta.
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Leggiamo quasi quotidianamente notizie di femminicidi, una parola che è entrata di forza nel nostro vocabolario quotidiano, ma che non ha perso perciò la sua carica emotiva. Quello, però, di cui non si parla abbastanza è del destino dei figli coinvolti in queste guerre familiari.
Uno degli ultimi casi di cronaca racconta di un padre che uccide la ex moglie di fronte alla figlia per poi togliersi la vita in sua presenza. Dopo aver letto il resoconto, il mio primo pensiero è stato per questa ragazza che ha assistito all’assassinio di sua madre e al suicidio di suo padre: come potrà mai riprendersi da uno choc di tale portata? È una domanda che mi pongo ogni volta che leggo di
“femminicidio”, perché insieme a queste donne vengono uccise anche le speranze e la vita di tanti bambini e ragazzi. Non solo perdono la madre, ma perdono anche il padre che si è reso colpevole di un delitto atroce. Ancora una volta i diritti dei bambini e degli adolescenti non sono minimamente presi in considerazione. Gli uomini che uccidono le madri dei propri figli non pensano sicuramente alla sorte dei loro ragazzi: accecati dall’odio per l’altro, non riescono più a misurare le conseguenze dei loro gesti. E non parliamo di assassini o di killer professionisti, ma di uomini che uccidono le loro compagne, mogli o fidanzate con un gesto che è il rifiuto del cambiamento, un gesto netto di chi preferisce eliminare in modo definitivo la causa diretta di una situazione nuova che non è in grado di gestire. Il conflitto tra adulti può arrivare a livelli talmente parossistici, da rendere le persone coinvolte assolutamente cieche, anche ai bisogni dei minori coinvolti.
Fulvio Scaparro, parlando di mediazione, dice che spesso i genitori si prendono a “bambinate”, utilizzano cioè i figli come strumenti contundenti, li usano per i loro scopi, giustificandosi con la scusa che lo fanno per il loro bene. Non si rendono conto del fatto che il bene dei bambini è innanzitutto la stabilità degli affetti, la serenità, la fermezza dei valori, la sicurezza. Di recente l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha redatto la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, una carta che prende spunto dalla convenzione di New York del 1989 e che al punto 7 recita: “I figli hanno il diritto di non assistere e di non subire i conflitti tra genitori, di non essere costretti a prendere la parte dell’uno o dell’altro, di non dover scegliere tra loro…”. Naturalmente qui si discute di coppie che vivono un conflitto gestibile, ma che comunque sono resi ciechi dalle loro frustrazioni. Nei casi più gravi, dove si arriva appunto ad uccidere la madre dei propri figli, dove vengono messi questi diritti? Che ne è di questi ragazzi che dovranno convivere con tutta la vita con l’orrore della perdita, dell’abbandono, della morte?
Da mediatrice non posso non pensare all’importanza di trovare degli strumenti per arginare questa escalation di violenza che porta alla troncatura di ogni dialogo a favore di una soluzione definitiva e incontrovertibile. Mi spaventa il fatto che tutti questi casi di cui leggiamo siano solo l’epilogo di una ben più diffusa cultura del conflitto. Ragionando sulle motivazioni, penso che una delle cause del femminicidio possa essere proprio la povertà cognitiva, cioè l’incapacità di gestire le emozioni, di dare un nome alla paura, alla frustrazione, al dolore: quando non siamo in grado di riconoscere uno stato d’animo e di nominarlo, la reazione più primitiva è la violenza. I bambini che non riescono a gestire i propri sentimenti vengono presi da crisi di rabbia, pestano i piedi, urlano il loro disagio. I sociologi ci dicono che sono proprio i ragazzi che hanno meno strumenti linguistici i più violenti: non riuscendo a esprimere a parole i propri sentimenti, si esprimono attraverso la violenza.
Ed ecco che questi stessi giovani, una volta raggiunta l’età adulta, di fronte al rifiuto di una compagna, non riescono a trovare parole convincenti, motivazioni, non riescono a proiettarsi in un futuro diverso ed esprimono dunque la propria sofferenza con la violenza, riversandola su chi ritengono ne sia la causa. Non è dunque solo la povertà sociale a condurre alla violenza, esiste una povertà emotiva diffusa tra coloro che non sono abituati a nominare i propri sentimenti.
Credo che dovremmo lavorare molto sull’educazione alla gestione delle emozioni. A scuola dovremmo insegnare ai bambini a esprimere i propri sentimenti, perché l’educazione non può essere un semplice passaggio di saperi, ma deve essere un esercizio di umanità. E solo formando bambini più sensibili, più capaci di esprimersi, più motivati a raccontarsi si potranno avere adulti aperti al confronto, alla discussione, all’inclusione, alla tolleranza.
M. Chiara Tronconi
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