M. Chiara Tronconi, lettrice sensibile e attenta, ci suggerisce la lettura di un romanzo le cui pagine vibrano di affetto e di ragione. Una storia di vita, di migrazione, di perdita di identità. Un racconto che ci invita e ci accompagna nel giardino delle riflessioni intorno al fenomeno delle migrazioni.
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Alice Zeniter, L’arte di perdere, Torino, Supercoralli Einaudi, 2018
Vorrei consigliarvi la lettura del romanzo L’arte di perdere della giovane scrittrice francese Alice Zeniter. Può infatti aiutarci a comprendere lo stato di spaesamento ed estraniazione che molti stranieri vivono nel momento in cui emigrano in un altro Paese, un Paese dove si sentono estranei, ma che deve diventare la loro casa. E lo diventa per i figli, che avranno pochi ricordi delle loro origini. I migranti, pencolanti tra un qui e un là, tra un allora e un adesso, perdono in un certo modo la loro identità.
Il romanzo è la storia di una famiglia algerina che si dipana dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino ad oggi, un lungo periodo in cui la famiglia ha conosciuto momenti di grande prosperità e di grande disfatta. Il patriarca Alì, combattente nella Seconda guerra mondiale a fianco dei francesi, diventa per questo motivo un nemico del nuovo stato nel periodo della guerra per l’indipendenza algerina e, nel 1962, è costretto a fuggire con la moglie e i figli in Francia. Deve abbandonare i suoi uliveti, la sua casa avita tra le montagne, il suo villaggio, la sua famiglia allargata per diventare un profugo, relegato per anni nei campi per rifugiati nel sud della Francia e poi nella banlieue di una piccola città del nord. Svuotato di ogni dignità, vive come una specie di fantasma questo suo non essere più algerino ma non essere neppure francese, in bilico tra due mondi separati dal mar Mediterraneo e inconciliabili tra loro. Quando la nipote Naïma, figlia del suo primogenito Hamid, una giovane donna francese con l’aspetto fisico da algerina, inizia a interrogarsi sul passato della sua famiglia, scopriamo come questo non essere più, ma non essere ancora influenzi la vita di un’intera comunità. Per Naïma l’Algeria è solo nei rituali della nonna, una nonna con cui la comunicazione è più fisica che verbale a causa della lingua, Algeria sono le riunioni con i tanti zii e zie intorno al couscous, Algeria è l’aspetto fisico che ha ereditato da suo padre. Ma la sua conoscenza non va oltre, anche a causa del faticoso silenzio del padre. Solo per un fortuito incontro di lavoro con un artista algerino, Naïma inizia a ricostruire il passato della sua famiglia, i racconti della vita in Cabilia prima della rivoluzione del 1962, la precipitosa fuga del nonno con la moglie e i figli in cerca di rifugio in Francia, e lì lo spaesamento, la paura, la vita nei campi profughi e poi nella banlieue. Finalmente comprende che il rifiuto di suo padre per le sue origini è il rifiuto del dolore e dell’estraneità, la ricerca di una vita altra da offrire alle figlie. Anche se i francesi la considerano un’algerina, soprattutto negli anni del terrorismo e della xenofobia, Naïma capisce presto che un paese non è un tratto somatico e non si può ereditare.
M. Chiara Tronconi
Grazie!! Abbiamo tanto da imparare dall’esperienza di chi ha dovuto combattere per sopravvivere e, sopravvissuto ha dovuto fare i conti con con le terribili perdite.
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