Di Chiara Alpi
“La scuola non serve solo a trasmettere le conoscenze ai ragazzi e a prepararli per affrontare esami, ma a far sì che ci siano uomini e donne veramente liberi”
“La scuola – catena – di – montaggio, che riduce a cervelli montati in serie sulla base della ripetizione (ti dico cosa devi sapere, lo memorizzi, poi lo ripeti) è addestramento che rende assenti. La scuola – vita è invece educazione: fa maturare il nuovo e li rende presenti.” (A. D’Avenia)
In questo articolo mi piacerebbe riuscire a non ripetermi, riprendendo troppo ciò che ho detto nel webinar dell’8 aprile o ciò che è già stato scritto nell’articolo del 12 Aprile 2021.
L’idea è quindi quella di partire dalla DAD e dalle problematiche che più sono state riscontrate in questi mesi, per analizzare alcuni aspetti più legati, in generale, al contesto scolastico e sociale, al nostro modo di fare scuola.
Mi piacerebbe partire da un’intervista e da un articolo di Alessandro D’Avenia, professore e scrittore. La prima è un’intervista a D’Avenia stesso e a Gabriele Vacis, regista e sceneggiatore (che ha curato anche alcune rappresentazioni teatrali tratte dal romanzo dello scrittore) di R. Scorranese per l’inserto 7 del Corriere della Sera in edicola il 9 aprile. Il secondo è un articolo scritto (sullo stesso numero dell’inserto) da D’Avenia stesso sul fatto che la DAD evidenzi (e non crei) alcuni problemi sociali e scolastici che probabilmente prima avevamo normalizzato, non vedevamo, ma che sono venuti fuori in seguito a un cambiamento, come spesso accade con i problemi.
Personalmente ho sempre amato gli scritti di D’Avenia: mi ricordo che il mio libro preferito quando ero al liceo fosse “Cose che nessuno sa”. Chi ha letto qualcosa di suo avrà forse notato che c’è una costante nei suoi libri: la scuola è sempre presente, come luogo per scoprire nuove realtà e per imparare qualcosa della vita, dalla vita. I professori sono sempre descritti come persone, che sbagliano, che hanno una vita e che vengono ascoltati dagli alunni nel momento in cui li riconoscono come persone. É questo che mi è sempre piaciuto dei libri di D’Avenia, in aggiunta alle storie d’amore di cui ho fatto incetta nel periodo dell’adolescenza. Ma questo rapporto tra la scuola e la vita, tra gli insegnanti e gli studenti è una delle differenze tra questi libri di D’Avenia e altri libri che trattano “solo” una storia d’amore. E se un libro del genere diventa il preferito, per anche tutti gli anni successivi, di una ragazza di 14 anni, vuol dire che contiene qualcosa che pensa, e ancora di più, qualcosa che cerca e desidera. Qualcosa che sembra ancora in opposizione con l’idea che abbiamo noi di scuola, nonostante i grandi complimenti che lo scrittore continua a ricevere. E che in qualche modo lo è, in opposizione intendo: ma lo è con l’idea che abbiamo noi… non può esserlo con il concetto di scuola in generale. Questo si nota molto nel suo ultimo libro: “L’appello”, in cui lo scrittore racconta di una “classe – ghetto” che, per arrivare all’esame di maturità, viene affidata ad un professore cieco, la cui condizione lo porta ad essere uno dei pochi che riesce a vedere quegli studenti e conoscerli. Fortunatamente non ho mai percepito di essere capitata alle superiori con docenti che la pensassero come il preside di questo libro (che vi consiglio!), ma non è da tutti poterlo dire; di questo sono sicura.
Quante volte in questi mesi di Didattica A Distanza ci siamo affannati per tenere i ragazzi attenti e connessi, preoccupandoci dell’aumento di distrazioni, del fatto che essendoci lo schermo i ragazzi potevano barare durante i compiti in classe, non frequentare le lezioni con la scusa della connessione scarsa, della videocamera da tenere spenta, dell’audio che non va? D’Avenia nel suo intervento commenta la richiesta di tenere accese le telecamere; pena: nota disciplinare. Il suo commento a riguardo: “Le scuole hanno dovuto introdurre le note disciplinari per chi non accende la telecamera, ma è proprio disattivandosi che lo studente è riuscito finalmente ad affermare l’essenziale. Nega a noi ciò che gli consente di essere qualcuno: il volto e la voce (…). Se i ragazzi ce li sottraggono è per carenza di presenza: (…) vogliono dirci che il loro volto e la loro voce non interessavano a nessuno già prima della pandemia.” Ed eccolo qui il collegamento, la grande denuncia.
Il problema è che i ragazzi si sentono come secchi da riempire, in cui i professori devono inserire con l’imbuto tutto quello che sanno. E ogni tanto vengono inseriti troppi argomenti, davvero troppi, uno dopo l’altro, senza nessun apparente collegamento con la realtà se non nella testa del docente. E i ragazzi ci si strozzano. Non ci stanno, perdono interesse. Ed è questo il punto focale alla fine: i ragazzi devono avere un motivo per imparare, deve esserci un interesse, un desiderio: e l’unico modo in cui si può fare non è abbandonando il programma, ma integrandolo alla vita. Se no tutto si riduce a un leggo e ripeto a macchinetta in modo da prendere i voti più alti possibili. “La scuola – catena – di – montaggio, che li riduce a cervelli montati in serie sulla base della ripetizione (ti dico cosa devi sapere, lo memorizzi, poi lo ripeti) è addestramento che rende assenti. La scuola – vita è invece educazione: fa maturare il nuovo e li rende presenti.”
Spesso parlando con gli adolescenti mi dicono che a scuola devono imparare anche cose che non gli interessano, perché se no rischiano il brutto voto, di essere rimandati o bocciati; che le cose che interessano, magari anche più pratiche, a scuola non sono trattate (e spesso questo è stato solo inasprito dalla DAD, con ancora più genera ansia perché i docenti dovevano dimostrare che la DAD funzionava, che i ragazzi riuscivano a “imparare” lo stesso, riuscivano a completare il programma).
Posso solo immaginare la difficoltà, davvero: ho insegnato solo tre settimane nella scuola elementare del mio paese e per tutto il tempo ho avuto l’ansia di non riuscire a fare tutto ciò che la maestra curricolare ci aveva lasciato da fare. E va bene, io di base ho questo tipo di ansie (e ne sono consapevole), ma posso immaginare cosa voglia dire insegnare con l’ansia, con il fiato del “completare il programma” sul collo, essere in pari per le prove semestrali, bimestrali, le INVALSI, come se fosse quella l’unica preoccupazione di chi deve insegnare qualcosa.
Ma la cosa che, di tre settimane, più mi è rimasta impressa, non è l’ansia, ma un bambino che mi ha chiesto “Maestra, ma la matematica, nella realtà dov’è? A cosa serve?” E a questa domanda non puoi rispondere, ignorandola e continuando solo con il programma scolastico. Questa domanda esprime tutta la curiosità dei bambini e la loro speranza di ricevere dalla scuola qualcosa di utile, di reale e bello. Hanno capito tutto della scuola, i bambini. Si approcciano ad essa con quelle domande che poi smettiamo di farci, perché iniziamo semplicemente a vedere la scuola come un edificio dove ascoltare e ripetere, dove l’insegnante mette i voti se sei bravo, dove gli studenti si sentono bravi solo se hanno voti alti. E allora ecco che l’unico modo per ribellarsi, non a un professore o a un preside, ma a un intero sistema scolastico, che, come viene detto nell’intervista, sembra essere rimasto fermo all’Ottocento, che presta più attenzione al programma che alle vite dei ragazzi, diventa non ascoltare, stare disattenti, assenti. E allo stesso tempo è molto più, molto peggio di una ribellione: è una naturale conseguenza; così naturale che spesso neanche colleghiamo le due cose. É come se gli alunni stessero dicendo “ma cosa me ne frega dell’Odissea, prof? Cosa c’entra con me?”. Solo collegandola alla vita, a quel desiderio e quella spinta che tutti, e soprattutto gli adolescenti, sentono dentro riusciremo a rendere interessante Omero, Dante e tutto il resto agli studenti.
I professori che, a distanza di anni, ancora ricordiamo (positivamente) sono quelli che, oltre a vedere gli alunni come persone e non come numeri o nomi su un registro, attraverso la materia insegnata, ci hanno lasciato qualcosa di loro; quelli che “si capiva che amavano insegnare e ciò che insegnavano”. Il fatto che ci stupiamo quando troviamo un professore del genere, implica quanto è stata interiorizzata la visione della scuola descritta sopra. “Quando ho provato a rappresentare con loro l’Odissea, una volta, ho messo i banchi in cerchio e sembrava stessi facendo la rivoluzione”, dice D’Avenia. La scuola come luogo di scambio di conoscenze e opinioni, valorizzabile con diversi metodi consigliati (Cooperative Learning, Peer Education…) nel corso del tempo, lascia spazio, viene soverchiata di dubbi, dalla paura di fare troppo rumore, di non riuscire a stare dietro a tutti, o di non stare dietro (eccolo che torna!) al programma. La scuola vista come luogo di crescita e scambio dovrebbe essere uno dei luoghi più importanti della vita: non dovrebbero esserci professori che hanno scelto la strada dell’insegnamento solo perché non hanno trovato altro da fare nel loro ramo. Come afferma lo scrittore durante l’intervista, la scuola dovrebbe essere un aiuto reciproco, ma reale, tra allievi e maestri, deve essere rito, gioco e narrazione (esattamente come il teatro). Per lo scrittore “Al vero maestro non interessa addestrare “copiatori”, ma educare “artisti”. (…) Insegnare richiede, per professione (non per missione), la cura della vita integrale.” Risponde anche a una delle frasi che probabilmente, gli insegnanti si sono sentiti dire, almeno una volta nella vita: “Chi non sa fare insegna”, mentre invece “solo chi sa fare insegna, perché solo chi sa amare inventa. Se la scuola fosse ascoltare conferenze da ripetere poi in un’interrogazione, nessuno si sarebbe mai lamentato della DAD”.
E qui lo scrittore si ricollega alla Didattica A Distanza. Io forse mi ripeterò, ma credo sia un aspetto importante quando si discute della DAD: la relazione. La DAD è stata infatti accusata a più riprese di inibire (non di rendere complicata, ma di inibire!) la relazione tra persone. Personalmente conosco molti insegnanti che sono riusciti a mantenere, e in alcuni casi addirittura a costruire, fantastiche relazioni con i propri studenti. La DAD lo può rendere più difficile, ma non impossibile se i ragazzi si sentono ascoltati, parte della lezione, capiti. Ma questo non si esaurisce soltanto nella DAD, non si risolve magicamente tornando nelle classi. “Se la relazione discepolo – maestro era aperta, è rimasta aperta, e la DAD è stata la risorsa per tenerla viva”: la DAD è stata una risorsa per mantenere continuità. E, a volte, è stata anche più utile perché parlando al microfono era come parlare all’orecchio dello studente, perché non “sprecando tempo” nel viaggio era possibile organizzare anche colloqui individuali con gli studenti. La mia speranza è di portare QUESTO TIPO di rapporto, che nel migliore dei casi si sta sviluppando in DAD, anche in presenza.
Un aspetto che D’Avenia nomina soltanto, ma che noi di UVI conosciamo bene (come è emerso dalla conferenza dell’8 Aprile sulla DAD) è quello che riguarda le disuguaglianze di base, che sono state accentuate ancora di più dalla DAD, richiedendo quest’ultima materiali e strumenti che non tutte le famiglie possono recuperare (o avere in numero adatto). Fortunatamente tante scuole e associazioni si sono attivate fin da subito per cercare di rendere queste disuguaglianze meno impattanti. Non tutti ci sono riusciti con gli stessi tempi o fornendo gli stessi strumenti. Ma questa attenzione al singolo, alla persona e al suo vissuto, alla curiosità innata degli studenti (su cui alcuni insegnanti hanno cercato di fare leva per assicurarsi la connessione degli studenti) è ciò che rende, secondo me, l’insegnamento funzionale e importante. Ma anche le relazioni, l’ascolto dell’altro, lo scambio di opinioni, l’offerta di spunti di riflessione, ci rendono possibile non parlare di una conferenza, non di una scuola – catena – di – montaggio ma di scuola – vita.
“Le situazioni nuove sono come strettoie, che aprono a paesaggi più ampi e belli… ciò che consideriamo difficoltà da risolvere e inciampo da levare, in realtà sono una chiave: apre il baule che teniamo sulle spalle, dove sta il tesoro che da sempre abbiamo con noi”
(S. Fausti)
CHIARA ALPI