Educatori, maestre, maestri e insegnanti sono interpreti di partiture musicali prestabilite alle quali devono attenersi (i cosiddetti “programmi”, con le connesse procedure di valutazione illusoriamente oggettive, tipo “test Invalsi”). In ogni caso, non “esecutori” ma “interpreti”, che ne siano o meno consapevoli.
André Gide scrive: «Si racconta che Chopin, al pianoforte, aveva sempre l’aria di improvvisare; sembrava, cioè, cercare, inventare senza tregua, svelare poco a poco il suo pensiero».
In una scuola materna, elementare, media inferiore, superiore e all’Università gli insegnanti dovrebbero fare altrettanto.
Gide continua: «Questa specie di affascinante esitazione, di sorpresa, di rapimento, non è possibile se il pezzo ci viene presentato non più in progressiva formazione, ma come un tutto già compiuto, preciso, obiettivo».
L’insegnante ha di fronte a sé tastiere con i tasti bianchi e neri (i propri allievi) e sta a lui trarne melodie inattese e sorprendenti. Dovrà lui stesso emozionarsi e stupirsi, dicendo ciò che ha deciso di dire; che si tratti si storia, di lingua straniera, di scienze, di letteratura, di matematica, di cultura in generale.
Ecco perché formazione a distanza e slide preconfezionate non paiono essere gli strumenti più adatti a coinvolgere emotivamente i giovani ascoltatori che, a ben vedere, hanno comunque pagato il biglietto per assistere a un concerto che li sorprenda, lasciandoli senza fiato. La scuola altro compito non dovrebbe avere che quello di far innamorare del sapere e della conoscenza. Ma perché ciò accada, ad essere innamorati del sapere e della conoscenza dovrebbero, per primi, essere gli stessi insegnanti. Il che, in genere, non pare confermato dai fatti.
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A mio parere, impostare l’educazione sulla base di una visione aperta ed edonistica è alla base della capacità di un sistema di scolastico di sapersi adattare al cambiamento generazionale. Certamente la necessità di rispettare un programma stabilito dal Ministero ostacola la possibilità di affrontare esclusivamente ciò che piace agli studenti, ma non è impossibile far appassionare bambini e ragazzi alle materie insegnate. Il primo passo, imprescindibile, risiede nella passione degli educatori: un educatore senza passione, senza valori, senza interesse e amore per ciò che trasmette a lezione non potrà mai adempiere pienamente al proprio ruolo. In secondo luogo, è fondamentale interrogare i nostri ragazzi chiedendo loro cosa amano della scuola, se veramente amano la scuola o se al contrario non amano la scuola; chiediamo loro come la scuola potrebbe diventare un posto migliore, un posto dove trascorrere 4/8 ore al giorno non sia solo un obbligo. L’insegnante deve saper parlare anche di se stesso, trasmettere perché ama insegnare e in cosa lo appassiona ciò che insegna; non tutto ciò che gli studenti leggono sui libri può interessarli, perciò la nuova didattica deve saper rendere coinvolgente e dolce il programma ministeriale che spesso pesa come una spada di Damocle su tutto il personale scolastico.
La didattica virtuale, che molto probabilmente a settembre coinvolgerà nuovamente gli studenti delle scuole secondarie di II grado, può comunque avvalersi di questi strumenti: rilanciamo ai nostri alunni delle domande di riflessione, proviamo a chiedere il loro punto di vista non soltanto su Heidegger, sulla seconda guerra mondiale o sugli algoritmi ma anche e soprattutto sulle lezioni online, su cosa si aspettano dalle lezioni svolte in videochiamata e come secondo loro si potrebbero migliorare. Sono certa che, nonostante il malcontento generale e le numerose lamentele circa un sistema scolastico obsoleto e poco informatizzato come quello italiano, molti insegnanti hanno saputo cogliere anche da questa situazione ciò che di meglio si poteva trarre.
La corrente della psicologia positiva fondata da Seligman ci insegna che quando si verifica un problema la soluzione migliore si ottiene puntando sulle risorse e sulle potenzialità dei soggetti piuttosto che focalizzandosi sui loro limiti e sui punti di debolezza.
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Ho letto attentamente le considerazioni che Gide fa a proposito del fatto che Chopin al pianoforte amava spesso improvvisare, svelando a poco a poco ció che accadeva nei suoi pensieri e penso che il collegamento con il sapere “preconfezionato” erogato nelle istituzioni scolastiche a partire dalle scuole primarie di primo grado per arrivare alle università sia quanto più azzeccato e tristemente attuale. Le conseguenze della pandemia sulle modalità di insegnamento ormai sono ben note e come enunciato nella riflessione proposta, credo che poco si addicano a soddisfare quello che dovrebbe essere il reale scopo della scuola, ovvero sviluppare l’individualità e il pensiero critico di ciascun studente facendolo innamorare del sapere e della conoscenza. Al giorno d’oggi sembra quasi che la quantità di sapere che ognuno possiede valga di più della qualità di quest’ultimo ed il triste effetto che possiamo osservare è una massa di studenti che usciti dalle scuole e dalle università sembrano possedere menti create con lo stampino, che tanto hanno immagazzinato ma che poco hanno effettivamente elaborato e reso proprio.
La colpa non può certamente ricadere su di loro, che sono i consumatori di questo servizio, ma è di coloro che dovrebbero erogare il sapere appunto come interpreti, in grado di individuare il potenziale di ciascuno studente e favorirne lo sviluppo di una capacità critica di pensiero, e non come semplici esecutori di questo sapere.
Le menti dei bambini e dei ragazzi di oggi sono quelle che molto probabilmente ci guideranno domani e per questo motivo credo debbano essere coltivate con passione, lasciando spazio anche alla loro capacità di “improvvisare” e non soltanto riempiendole come fossero semplici contenitori.
Chopin, con ogni probabilità, non avrebbe mai composto le melodie che conosciamo se non avesse potuto concentrarsi su ció che accadeva nella sua mente ed improvvisare sulla base delle sensazioni e dei pensieri che vi sentiva scorrere quando si esercitava al pianoforte.
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