Chiara Dellea – educatrice, insegnante, danzatrice dell’anima – si è seduta al tavolino virtuale del nostro Bar, all’angolo con Via dei Pensieri Sospesi, per raccontare e raccontarsi. Un segmento di autobiografia dai risvolti emotivamente e razionalmente coinvolgenti. Un frammento di vita vissuta che può essere utilmente tenuta presente per favorire la risposta ad una domanda di fondo: perché stiamo facendo ciò che stiamo facendo?
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Sono venuta a conoscenza dell’Albero dai Mille Colori quasi tre anni fa, quando, socia di un’azienda, cominciavo a sentirmi stretta nel mio ruolo di direttrice didattica e docente di lingue: sentivo crescere il bisogno di dare un vero sostegno al prossimo e contribuire alla promozione del manager di turno iniziava a non bastare più. Incontrando Silvio, nasce così RadicaMi, un progetto di capacity building a favore dell’Albero, delle sue risorse e a sostegno del quartiere di San Siro, promosso da UVI, WorldBridge Education e il Politecnico di Milano. RadicaMi è stata una boccata di ossigeno per me: avevo poche ore da dedicarci all’interno delle mie settimane così fitte di impegni manageriali, ma era ciò che mi riempiva il cuore e regalava in pochi minuti una soddisfazione così profonda che neppure le vendite più riuscite potevano sperare di rasentare.
Sono cresciuta facendo volontariato, ma nella mia testa questo mondo era sempre rimasto scisso da quello professionale. Ora invece, avevo assaporato la possibilità di unirli, vivendo un’esperienza per certi versi più complicata, ma così più vera.
Uscita dall’azienda, la scorsa estate, ho quindi timidamente ricontattato UVI per chiedere se sapessero indirizzarmi più verso quel mondo così ricco d’ossigeno ma a me ancora così sconosciuto. Immaginate il mio entusiasmo quando non solo ho ricevuto l’aiuto sperato, ma mi è stata proposta la posizione di referente proprio per il progetto dell’Albero: non mi sembrava vero! Mi sarei potuta dedicare integralmente allo stesso progetto a cui avevo già contribuito, seppur tangenzialmente, e di cui, anche grazie a tutte le testimonianze dei partecipanti di RadicaMi, conoscevo il profondo impatto sul territorio milanese. Il tutto al fianco di quelle stesse persone che mi avevano permesso di appassionarmi al progetto da subito e che ora decidevano di investire su di me e sulla mia professionalità. Al settimo cielo, ho accettato subito!
Al primo incontro con le mie nuove colleghe, sottoscrivendo il nostro nuovo contratto, le Associazioni hanno rimarcato più e più volte la nostra nuova posizione: ogni Albero da quest’anno avrebbe avuto una Referente. Dopotutto, pensavo, siamo tutte anche educatrici… ammetto che non capivo fino in fondo l’esigenza di riformulare il nostro ruolo in questi termini. Ad ogni modo, la posizione era chiara ed era quella che anelavo, quindi Referente sia: mi lancio a capofitto nel gettare le basi per quello che avrei voluto fosse poi il nostro Albero quest’anno. Sono partita in quarta, modalità Chiara-pianificatrice (entusiasta) full-on e il mio Team Russo lo sa bene! Innanzitutto volevo conoscere la mia squadra, il mio Team appunto nel mondo da cui vengo. Identificare i nostri punti di forza, le nostre motivazioni, ma anche i nostri limiti, condividere degli obiettivi e poi, beh, certo iniziare a realizzarli. E per questo serve pianificazione, organizzazione e struttura. Ah, la mia struttura! Un po’ sorrido ora a pensare quanto mi fosse cara (sia chiaro non la rinnego completamente, anzi!), ma certo l’esperienza ci regala poi anche un po’ più di consapevole elasticità, che ci rende solo più forti.
Ad ogni modo, abbiamo lavorato duramente e pianificato, considerando le diverse variabili e preparandoci ai molteplici obiettivi, finché i bambini sono arrivati, velocemente e più numerosi del previsto. Così, a un tratto, una mattina, tra una sveglia che segnava il termine dell’attività creativa e l’altra, mi sono ritrovata circondata da tante piccole (e grandi) storie di vita, alcune brevi, altre meno, ma tutte così ricche. Tanti visi, che ho cercato di osservare a fondo dal primo giorno, ma che ora davvero conoscevo. Tanti gesti, che prima potevo solo notare e che ora iniziavo davvero a comprendere. E a un tratto è stato automatico, un istinto riconoscerli così: quelli ora erano i miei bimbi e i miei volontari, non più solo il mio Team, il mio Albero nella sua collettività, ma ognuno di loro, con i loro talenti e le loro peculiarità, le loro esigenze e il loro contributo, tutti così distinti eppure tutti lì in qualche modo insieme.
Sono sempre stata quella empatica e l’empatia a volte può essere davvero un super potere: credo sia il livello più profondo della relazione umana – en pathos, dal greco, “sentire dentro” – neuroni specchio o quel che volete, è ciò che ci permette non più solo di osservare e neppure semplicemente di “sentire insieme” (simpatia). L’empatia ci fa sentire dentro quello che l’altro sente, ci mette nei loro panni e ancora di più: mette un po’ dell’altro dentro di noi.
È proprio in quel momento di connessione così intima che ho capito:
Le mie motivazioni nell’accettare questo incarico erano personali. Certo, poi una bella sfida anche professionale, per testare nuovi metodi e ampliare la mia esperienza, ma il cuore è ciò che mi ha fatto scegliere l’Albero. Nessuna delle più di 40 persone che contribuiscono al progetto sono lì per una ragione diversa, perché semplicemente altrimenti non avrebbe senso esserci. Eppure quello stesso sentimento, che rimane sicuramente il più nobile e una preziosa risorsa per tutti noi, se isolato, nella mia posizione, rischiava di diventare anche il mio più grande limite.
Nel momento in cui mi permetto di avvicinarmi all’altro, grande o piccolo che sia, in un modo così intimo e personale da poterlo “sentire dentro”, da diventare egli stesso io, questo (forse a prima vista paradossalmente) mi priva della mia professionalità, della mia ragion d’essere in quell’aula. Perché, se non sono più solo capace di scegliere di calarmi nei suoi panni, ma sono ora io stessa quei panni, quella storia, perché sono coinvolta personalmente, intimamente, come posso poi avere anche il distacco necessario per analizzare la situazione che ci circonda e la lucidità per capire ciò di cui l’altro ha davvero bisogno? Rischierei di finire così coinvolta personalmente da cadere inevitabilmente nelle stesse trappole in cui si cade per se stessi.
In fondo, è qualcosa che abbiamo sempre saputo: quando abbiamo un problema che non riusciamo a risolvere da soli, perché chiediamo aiuto? Perché il confronto con l’altro ci dona quella preziosissima prospettiva che da soli non riusciamo a ottenere. Noi, intrinsecamente coinvolti nella nostra stessa esperienza, vediamo tutto da vicino, enorme, ovunque, così che diventi il tutto. Come se fossimo in un bagno di folla in Piazza Duomo il 24 dicembre, quando tutti corrono per gli ultimi regali di Natale (pre-Covid). La folla ci trasporta e, se non spiccate in altezza neanche voi come me, tutto ciò che vi circonda sono altri corpi e teste. Come facciamo allora a capire dove siamo e da che parte dobbiamo andare ora?
Beh, abbiamo due opzioni: la prima è chiedere a qualcuno e poi scegliere di fidarci del loro giudizio, delle loro indicazioni. Perciò tanto meglio se quel qualcuno è una persona fidata, che sentiamo vicino e il cui giudizio stimiamo, altrimenti finiremo per dubitarne a un certo punto. La seconda opzione che abbiamo è, se conosciamo un po’ ciò che ci circonda, alzare gli occhi al cielo e, osservando i palazzi, guadagnare abbastanza prospettiva da determinare la nuova direzione.
In entrambi i casi, sapete cosa abbiamo fatto? Abbiamo scelto un punto di riferimento – un Referente!
Ce lo chiarisce meglio il Treccani: Referente è una “persona o cosa che costituisce o può costituire un punto di riferimento”. E lì, con tutta la mia empatia, la scelta era mia: potevo lasciare che tutta la mia emotività prendesse il sopravvento ed essere “tutta pancia”, sentire dentro e farlo diventare il mio tutto. Oppure scegliere (perché di scelta si tratta) un distacco empatico – scegliere di sì sentire dentro, ma per un attimo, tenendo lì precisa quella sensazione, per poi fare un passo indietro e metterla a fuoco grazie alle analisi, alle strategie, alle conoscenze, grazie alla mente, che può essere lucida solo se è abbastanza distaccata da avere prospettiva, ma che verrà ascoltata solo se abbastanza in sintonia da risuonare in noi. È un delicato gioco di equilibri.
Ecco così semplicemente segnato, in un solo attimo, l’inizio della mia infinita, grande sfida (ma spero anche grande dono) all’interno dell’Albero: essere Referente. Ricercare costantemente quell’equilibrio che ci permette di essere un punto fermo, eppure in costante evoluzione. In azienda l’avremmo detto in inglese, Leader, letteralmente colui che conduce, che guida. Una bussola umana, che dà la direzione e che è riuscito a guadagnarsi abbastanza fiducia, abbastanza vicinanza, da venire effettivamente seguito anche quando non tutto il gruppo condivide la direzione indicata, ma che ha la sensibilità e l’empatia per riconoscere quando quello è il caso e ricercare nuovamente il contatto, il confronto e la relazione col gruppo, così da non cadere nel diventare il prossimo banale dittatore, disertato alla prima occasione.
Certo a volte il distacco necessario per dettare la giusta direzione (soprattutto quando non subito compresa e condivisa dal gruppo) può costare anche un po’ di solitudine: a volte la tentazione di pensare che i pesi sarebbero più leggeri se si potessero dividere allo stesso modo su tutte le spalle alla stessa altezza è molto forte. Ma il prezzo da pagare sarebbe necessariamente ancora una volta la perdita di prospettiva, troppo preziosa da sacrificare perché intrinsecamente responsabilità ultima del punto di riferimento, del Referente, in quanto tale.
Ma indovinate? Basta anche qui far un nuovo passetto indietro per vedere un quadro ancora più ampio: quello in cui i piccoli cittadini del futuro che vogliamo crescere tutti insieme si sentono abbastanza sicuri, apprezzati e supportati da avere la forza e il coraggio di esplorare il mondo con le loro gambette e riempirlo delle loro idee, ma avendo abbastanza fiducia in noi da saper di poter contare su un paracadute ed essere liberi di chiedere aiuto quando serve.
Credo che la più grande gioia e profonda realizzazione di tutti noi, parte del progetto dell’Albero, educatori, genitori, leader o referenti, in qualche tempo o forma a un certo punto nella nostra vita, sia proprio la possibilità di insegnare alla prossima generazione i mezzi perché un giorno i nostri piccoli cittadini di domani non solo possano spiccare il volo senza timori ma possano elevarsi, diventando loro stessi bussole nel mondo.
Quindi viva il difficile quanto fondamentale equilibrio tra razionalità ed emotività, tra distacco ed empatia.
Viva la professionalità umana!
CHIARA DELLEA
Grazie di cuore Chiara!
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Grazie Chiara per la tua profonda testimonianza! Traspare davvero la passione che hai per il tuo lavoro e per l’importanza che esso riveste per i bambini dell’Albero.
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