Non so descrivere quello che ho davvero provato quando lunedì notte mi sono coricata sul letto dopo avere sentito da Haiti, Lisa la mia bambina (che solo per effetto del passare del tempo compirà 19 anni il prossimo 8 dicembre, ma che per me è sempre la mia bambina dagli occhioni grandi come bottoni) dirmi di avere contratto il tifo. Non so dire i mille pensieri che lontano migliaia di chilometri da lei hanno letteralmente preso il controllo su di me. Pensavo solo a trovare il modo di salvarla e nel tentativo di rimanere lucida nel mio intento, combattevo l’angoscia di perdere quella che era stata il mio Fagottino, la creatura che avevo in dono e la cui felicità avevo giurato di proteggere.
Amo intensamente Dio e non ho potuto fare a meno di rivolgermi a Lui perché questa storia d’amore fra me e lei è anche la Sua stessa storia d’amore con Lisa, figlia sua prima ancora di essere mia.
Come sempre ho potuto contare sul papà delle mie figlie che non conosce titubanza alcuna e che diventa il coraggio in persona quando si tratta delle sue bambine, un misto fra i magnifici 4 e 007. Ma in queste circostanze il tempo non passa mai; un’ora può diventare un giorno, tre giorni settimane intere. Facile quando tutto va bene mettere i filtri fra noi e loro, un’autostrada fra cuore e cuore. Facile mantenere una distanza immaginaria che li protegga dalle ansie e dalle aspettative di genitori che per quanto innamorati, spesso diventano invasori inadeguati nella vita dei figli.
Più complicato quando la distanza la devi mettere davanti al pericolo e alla sofferenza, quando devi scegliere le emozioni che possano aiutare a risolvere distinguendole dallo tsunami che ti toglie ogni controllo sulla ragione.
Se c’è un pensiero che mi è palesato nella mente in questi giorni è stato : “perché l’ho lasciata partire?” Cadendo nella tentazione di abbandonarmi al senso di colpa. Ma grazie a Dio la risposta non ha tardato ad arrivare. L’ho lasciata partire perché davanti a me e a suo padre c’era una donna, capace di prendere le sue decisioni da sola. Davanti a noi c’era una persona grande, pronta a cambiare se stessa pur di poter fare la differenza nel mondo. Lisa ci chiedeva di partire per due mesi di missione umanitaria con la stessa fatica e lo stesso coraggio con cui noi glielo avremmo permesso e questo meritava tutta la fiducia e la forza di cui eravamo capaci.
Credo che questo significhi: essere “porto sicuro”. Noi siamo e dobbiamo essere per i figli che crescono: il luogo da cui allontanarsi e a cui fare riferimento, a cui tornare, tutte le volte che serve, fiduciosi che noi ci siamo e ci saremo sempre. In forme anche diverse nel tempo, ma sempre.
Eleonora Alvigini