La sensazione di chi vive e lavora in una grande città è quella di condividere uno spazio che non si estende all’infinito con un numero sempre più grande di persone. Per le strade, sui mezzi pubblici, al bar, le occasioni di incontro e di contatto sono inevitabili. E quindi, per una volta, smettiamo di essere politicamente corretti e diciamoci la verità: il contatto non voluto con questa mandria di estranei ogni tanto ci dà davvero fastidio.
Lo sguardo altrui che si posa su di noi, la voce petulante della signora al tavolo accanto, gli sgradevoli effetti del caldo di cui è caduto vittima il nostro compagno di viaggio, sono solo alcune fra le tante occasioni in cui ogni giorno sperimentiamo l’intrusione dell’altro. Un’intrusione delicata e più che sopportabile: chi ci sta guardando è solo il portinaio per augurarci una buona giornata, la signora prima o poi azzannerà il suo panino e smetterà di parlare, e la fragranza non proprio freschissima del nostro compagno di viaggio ci abbandonerà tra un paio di fermate. Tutte queste esperienze, così quotidiane che neanche ci facciamo caso, attestano però una verità fondamentale: le nostre vite sono caratterizzate da una socialità ineliminabile, i nostri corpi sono esposti al contatto con gli altri, le nostre esistenze sono aperte all’irruzione dell’altro.
La filosofa americana Judith Butler si è a lungo interrogata proprio sulla costitutiva apertura delle nostre vite, sul loro essere esposte – nel bene e nel male – all’azione altrui, sul loro dipendere dalla cura che possiamo ricevere o dall’oltraggio che possiamo subire da chi ci sta intorno. È curioso che in uno dei suoi eruditi saggi Butler faccia proprio l’esempio della metropolitana per alludere a quelle esperienze che ci rivelano – non senza una punta di fastidio – l’inestinguibile prossimità corporea che ci lega agli altri. Questa situazione-tipo, così comune per tutti noi – accalcati nei vagoni, all’ora di punta, con le mani che si sovrappongono per reggersi ai sostegni – ci dice che la nostra condizione corporea ci costringe a una socialità che, tante volte, ci è sgradita: “che il mio corpo, sin dall’inizio e contro la mia volontà, mi ha posto in relazione ad altri, con i quali non desidero avere alcun contatto”.
La metropolitana diventa la situazione paradigmatica per alludere ai momenti in cui l’intrusione dell’altro diventa assai più bruciante e disorientante di un gomito altrui premuto sulle costole. Gli occhi e gli orecchi, la carne e la pelle, il corpo e la mente ci aprono da sempre al mondo degli altri: non si tratta solo delle circostanze in cui ci troviamo a vivere una prossimità non voluta, ma anche del fatto che questa originaria esposizione all’altro ci rende sensibili ai richiami di chi ha bisogno, suscettibili alle offese di chi ci disprezza, vulnerabili alle aggressioni di chi ci fa violenza.
Meglio sarebbe, allora, chiudersi a riccio, viaggiare su vagoni deserti, diventare insensibili a stimoli e richieste. Questo è il sogno di una perfetta immunità: un soggetto autonomo e indipendente che può proseguire la sua corsa senza che una folla di sconosciuti ne pregiudichi la pace e l’integrità. Ma è davvero un sogno? O forse smarrire il senso della nostra sensibilità e vulnerabilità significa precipitare nell’incubo peggiore, quello in cui, isolandoci dall’altro, perdiamo anche noi stessi? “Siamo destabilizzati l’uno dall’altro. E se non lo siamo, stiamo perdendo qualcosa. E se ciò sembra riguardare, chiaramente, il dolore è solo perché da sempre riguarda il piacere. È impossibile persistere inalterati”, scrive Butler.
È vero, dunque, che il nostro corpo ci espone a vite che non ci appartengono, che la nostra vulnerabilità ci rende succubi alla violenza, che la nostra interdipendenza ci costringe a un contatto che tante volte ha il sapore amaro del contagio. Ma è vero anche – ed è su questo che insiste con passione Butler – che è proprio a partire dalla vulnerabilità originaria e dalla socialità primitiva che caratterizza il nostro venire al mondo che possiamo riscoprire il senso del legame etico con gli altri: dalle esperienze in cui la nostra sensibilità è turbata può sorgere una speciale attenzione per la precarietà della vita propria e altrui. E con essa la volontà di trovare e rispettare le condizioni in cui questa vita così fragile possa fiorire.
Continueremo a sbuffare con insofferenza ogni volta che saremo stipati sui vagoni del metrò, c’è da starne certi. Ma forse, per arrivare vivi e vegeti a destinazione, ci piacerà pensare che questi imprecisati altri, chiassosi e sudaticci, non sono solo uno sgradevole impiccio, ma anche una straordinaria risorsa.
Caterina Croce