Come conseguire un obiettivo comune. Ma soprattutto: perché ? Un come e un perché che costituiscono elementi concettuali fondanti per ogni analisi organizzativa. Aziende, imprese e associazioni (di volontariato o meno che siano) vivono se riescono a “vendere” e proporre ciò che producono, in primis servizi e cultura. Questo è l’obiettivo comune che la squadra-associazione deve conseguire. Ma c’è un ma: al riguardo, parlare di “gioco di squadra” è facile nelle aule di formazione. Tutt’altra cosa passare dal pensiero all’azione efficace in termini di concretezza operativa. L’Autrice, con alle spalle esperienze agonistiche, discorre delle luci e delle ombre che caratterizzano i processi di assunzione di responsabilità nel contesto dei gruppi sportivi. Con ripetuti e evidenti richiami al mondo associativo e del lavoro.
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“La forza del lupo è il branco, e la forza del branco è il lupo”: così nel 1894 Rudyard Kipling scriveva nella sua opera più nota “Il libro della giungla”. In questa semplice frase è racchiuso il concetto alla base del gioco di squadra, tematica sempre più ricorrente al giorno d’oggi non solo in ambito sportivo , ma anche nel contesto lavorativo, in particolar modo quello aziendale a causa della forte competitività che molto spesso coinvolge i lavoratori.
Nel campo aziendale e associativo il gioco di squadra è indicato con il termine “team work”, con cui si identifica un lavoro o un’attività eseguita da un team per il conseguimento di un obiettivo comune: tale definizione racchiude al meglio questo avvicinamento tra il mondo dello sport – con più precisione lo sport di squadra – e la sfera lavorativa quotidiana – specificatamente nelle aziende e nelle associazioni.
Perché un gruppo di lavoro funzioni sfruttando al meglio il suo potenziale, devono essere soddisfatte quelle che Giampiero Quaglino ha identificato come “7 variabili critiche” nel suo scritto “Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo”:
1) Obiettivo: il risultato che il gruppo vuole ottenere in modo economicamente e moralmente vantaggioso;
2) Metodo: regole che governano la vita di gruppo;
3) Ruolo: parte assegnata a ciascun membro in base alle sue competenze;
4) Comunicazione:interazione tra i membri necessaria per poter definire il gruppo come tale e poter conseguire l’obiettivo;
5) Leadership:capacità di una persona di condurre il gruppo a conseguire gli obiettivi prefissati;
6) Sviluppo: crescita delle competenze del singolo;
7) Clima: qualità dell’ambiente di lavoro.
Essendo quello del teamwork un approccio sistemico, basta che una sola di queste variabili venga meno perché si modifichi l’intero sistema.
Julio Velasco, allenatore di pallavolo e dirigente sportivo, è una delle figure che meglio incarna questa avvicinamento tra mondo lavorativo e sportivo: sono note le sue interviste e numerosi sono i convegni in cui lui stesso tratta di questa similitudine tra la logica che soggiace al gioco di squadra e il gruppo di lavoro.
” […] Io non sono d’accordo con l’affermazione che senza la squadra non si fa nulla. Il mondo imprenditoriale è pieno di uomini che da soli, usando gli altri come pedine operative, hanno fatto grandi cose. Ritengo però che gli affari, come tante altre attività, in una società che si sta sempre più globalizzando, siano diventati sempre più complessi, più vasti. Come conseguenza, anche se si ha il fuoriclasse, imprenditore o giocatore che sia, si farà sempre più fatica. Ergo, il gioco di squadra comincia ad essere una necessità. E non a caso sta divenendo un concetto di cui si parla molto nelle aziende”.
“[…] E’ in caso di difficoltà che si vede se c’è davvero lo spirito di squadra. Quando le cose vanno bene è semplice rispettare i ruoli, quando invece vanno male si innesca un meccanismo basato sul tentativo di dimostrare la propria innocenza, tra mille alibi e giustificazioni, e la colpevolezza degli altri. Il problema di fondo è che l’errore viene visto come una dimostrazione d’incapacità e non come strumento d’apprendimento”. (cit. da http://www.stageup.com)
Una delle problematiche più ricorrenti nel gruppo di lavoro riguarda la maggior parte delle volte l’interazione tra i colleghi o – se parliamo di associazioni – tra i volontari: spesso le questioni possono risolversi pacificamente in poco tempo, altre volte capita che proseguano nel tempo per sfociare poi in pratiche che vanno a ledere la salute psico-fisica dell’individuo. Una di queste pratiche è il mobbing, che consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica, che non necessariamente devono raggiungere la soglia del reato o essere illegittimi. Il termine Mobbing è stato coniato da Konrad Lorenz con cui l’etologo indicava un determinato comportamento aggressivo messo in atto da alcune specie animali per escludere alcuni membri dal gruppo. Per estensione, anche tra associazioni di volontariato si riscontra, a volte, un atteggiamento analogo, conseguenza di invidie, gelosie e timori di vedersi depredate di un supposto sapere sul quale si conta per ottenere finanziamenti.
Negli ultimi anni il mobbing si è diffuso in diversi ambiti: si può parlare infatti di mobbing lavorativo, scolastico, famigliare e, in un’ultimissima accezione, anche sportivo.
A differenza però degli altri campi, in quello sportivo non esistono norme di legge a cui appellarsi e con cui emanare delle sanzioni disciplinari, e men che meno nessun “tribunale sportivo” si è mai pronunciato a riguardo.
In quest’ultimo ambito sono noti diversi casi – a livello nazionale e non – di emarginazione di un atleta dalla rosa della squadra a causa di diverbi con i propri compagni, con l’allenatore o con il dirigente della propria società.
La giurisprudenza ha precisato che affinché si tratti di danno da mobbing, dovrà essere accertata, dal punto di vista medico-legale, una lesione sul piano psichico o psicosomatico in campo alla vittima: una mera sofferenza o un turbamento, se pur grave, sono da escludersi dall’ambito del mobbing.
La maggior parte dello stress può essere riscontrato nell’interfaccia tra atleta e società (si potrebbero portare ad esempio numerosi casi), oppure tra gli agenti e la stessa dirigenza ( numerosi sono i casi di ripicca a causa della sottoscrizione di contratti ritenuti “non soddisfacenti”).
È stato recentemente denunciato un nuovo problema che viene fatto confluire nel mobbing: lutti, malattie e problemi psicologici e fisici che affliggono gli atleti. Gli atleti stessi, per combatterli, sono, obbligati a assumere farmaci per superare il problema e non perdere il posto in squadra.
Come ha scritto nel suo libro “L’ultima partita” il giornalista de “Il Giorno” Giulio Mola, dopo anni di continue assunzioni di farmaci, molti sportivi hanno avuto gravi problemi di salute, spesso rivelatisi mortali.
Io posso testimoniare in prima persona,avendo praticato per diversi anni attività sportiva e agonistica, che questo tipo di vessazione è tipica di qualsiasi disciplina sportiva: frequenti sono i diverbi con un allenatore troppo esigente e poco comprensivo (soprattutto se l’allenatore pretende che i propri atleti mettano al primo posto nella vita –anche dinanzi alla scuola – lo sport) e che questi siano motivo di litigio e coalizione con i propri compagni di squadra.
Ricordo in particolare un allenamento in cui io durante una seduta di palestra avrei dovuto sollevare per un numero predeterminato di volte un peso molto superiore a quello a cui ero abituata. Ribellatami allora verso il mio coach, cercando di far valere le mie ragioni ,cercavo in continuazione lo sguardo dei miei compagni per trovare un sostegno. La discussione però non si è conclusa come mi aspettavo: il mio allenatore mi disse che se volevo migliorare e partecipare a competizioni di livello più alto avrei dovuto soffrire e magari mettere a rischio la mia salute (in questo caso la parte del mio corpo che avrebbe rischiato di più sarebbe stata la schiena, che tuttora nonostante siano tre anni che non pratico più agonismo, mi fa spesso male); i miei compagni non si erano invece minimamente scomposti dinanzi a lui, negli spogliatoi al contrario mi diedero ragione giustificando il loro silenzio precedente con frasi tipo “ se avessimo ribattuto non ci avrebbe fatto gareggiare”.
In qualsiasi tipo di professione dobbiamo “difenderci” da qualcos’altro: se però questo “qualcosa” sono i propri partner lavorativi, la questione diventa più complessa.
Le persone devono fare in modo di essere pronte ad affrontare situazioni più o meno rischiose: allenare il cervello significa pensare a quali fattori potrebbero impedirci di reagire,pianificare in anticipo le nostre emozioni, analizzare il modo migliore per adattarsi ad alcune situazioni di pericolo.
L’aiuto psicologico è fondamentale, per prendere confidenza con il proprio corpo. Sviluppare una buona coordinazione per sentirsi a proprio agio, sviluppare determinazione e autocontrollo (preparazione mentale), nonché consapevolezza del proprio corpo, delle dinamiche intrapsichiche in situazioni di forte stress. Occorre aver chiaro il concetto di “difesa”.
Di grande utilità possono essere i corsi di difesa personale, tanto “di moda” oggi in cui il rischio-pericolo, fisico e non, è fattore sempre costante, anzi, in continuo accrescimento.
Autodifesa, o difesa personale, è la capacità propria di saper gestire (o evitare) una disputa tra individui che, per svariati motivi, possono giungere ad uno scontro.
È molto diffusa l’opinione che la difesa personale sia solo un insieme di tecniche e di insegnamenti atti ad atterrare un avversario prima che sia lui a farlo, confondendo l’autodifesa con lo street fighting. In realtà, la difesa personale comprende sia tecniche fisiche per la difesa dalle aggressioni, sia tecniche psicologiche.
La difesa personale deve essere vista come una cultura di prevenzione adatta a tutti.
La difesa non deve essere necessariamente attuata contro un attacco fisico: il saper reagire a una situazione spiacevole quale è l’aggressione corporea conferisce al soggetto la sicurezza mentale di poter far fronte a qualsiasi difficoltà, quindi tutelarsi anche dagli attacchi verbali e quelle pratiche di maltrattamento e persecuzione che confluiscono nel mobbing.
Francesca Dazzi
• Nel rapporto tra associazioni di volontariato e istituzioni pubbliche si vengono spesso a configurare schemi che, in un qualche modo, richiamano modalità di resistenza e opposizione tese a rendere difficile (se non addirittura impossibile) il tradursi in pratica del pensiero associativo, soprattutto quando quest’ultimo viene a confliggere con le strategie politiche – il più delle volte inespresse – adottate dal potere politico del momento.