L’Autrice racconta e illustra una tecnica e una procedura metodologica applicata in una dimensione sociale specifica, peculiare e drammatica. L’esperienza, come del resto viene fatto notare in questo stesso contributo, rende però possibile ragionare sull’efficacia che un tale approccio potrebbe avere nell’ambito aziendale, associativo e organizzativo. Dove la capacità di ascolto e l’essere in grado di decodificare i microsegnali di natura emotiva (a livello individuale e di gruppo), costituisce la premessa di un buon “funzionamento” dell’organizzazione stessa.
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Presenterò brevemente un’esperienza da poco conclusa che riguarda la conduzione di laboratori di gruppo con le tecniche dell’arte terapia rivolti a giovani bosniaci, tentando di metterne in luce alcune caratteristiche tipiche che si presentano nelle dinamiche relazionali umane in senso universale e che sono osservabili tanto in un gruppo di professionisti che lavorano nel reparto di un ospedale quanto in una classe di giovani liceali.
L’esperienza di arte terapia in Bosnia era rivolta ad adolescenti e bambini ospiti di un orfanotrofio della città di Tuzla. L’intervento di arte terapia è durato sedici mesi e aveva lo scopo di offrire loro uno spazio espressivo e creativo libero, privo di giudizio e di finalità tecniche o estetiche, un ambiente protetto dove i partecipanti – creando – potessero esprimere pensieri ed emozioni e condividerle tra loro.
Le ragazze/i e le bambine/i protagonisti dell’esperienza erano provenienti da realtà sociali e familiari molto degradate e in molti casi figli di persone uccise durante la guerra. Un conflitto, specie del genere di quello nella ex Yugoslavia, lascia nella psiche dei protagonisti ferite che spesso durano tutta la vita e si ripercuotono sui figli anche se questi non hanno vissuto direttamente la guerra.
I giovani e i bambini che hanno frequentato i laboratori di arte terapia in molti casi erano ospiti dell’orfanotrofio perché sono stati allontanati da genitori alcolizzati, violenti o con gravi disturbi psichici permanenti conseguenti ai traumi vissuti durante la guerra. Negli ultimi anni, gli orfanotrofi in Bosnia si sono trovati a dover ospitare e gestire un numero esorbitante e inaspettato di bambini, ma senza la possibilità di incrementare né la quantità né la formazione del personale che si prende cura di loro. Va da sé che ragazzi provenienti da famiglie povere, figlie della guerra e gravemente deprivate, siano a loro volta profondamente segnati e abbiano grosse carenze nella capacità di avere fiducia in se stessi e negli altri, e che, se non del tutto assenti, le qualità relazionali familiari che hanno conosciuto sono state spesso coercitive e violente e ne ripetano a loro volta i comportamenti.
Normalmente le relazioni tra i giovani e i bambini ospiti dell’orfanotrofio di Tuzla, erano basate su rapporti di forza: dominio e paura rappresentavano l’interfaccia tipico nelle relazioni a due e di gruppo, soprattutto tra i ragazzi e i bambini di sesso maschile. Tutti, nessuno escluso, sono cresciuti nel dolore e nella paura, senza protezione o rassicurazione alcuna, maturando una percezione di sé molto svalutativa, probabilmente non molto diversa da quella che gli stessi genitori avevano di se stessi.
Nel laboratorio di arte terapia lo strumento privilegiato di espressione di sé era quello non verbale, simbolico e creativo delle immagini.
I ragazzi venivano invitati ad usare i materiali che preferivano e nella modalità che rispondeva ai gusti personali di ognuno, ai propri pensieri e sentimenti. Gli incontri avevano cadenza settimanale ed ogni gruppo era composto da un minimo di sei ad un massimo di 8 bambini o adolescenti. Le regole, stabilite fin dall’inizio, erano di sedersi in cerchio prima di iniziare a disegnare e, successivamente al lavoro artistico, i partecipanti alla fine di ogni incontro venivano invitati a posare la propria creazione all’interno del cerchio creato dal gruppo e a raccontare qualsiasi cosa volessero a proposito della propria immagine, ma senza che nessuno fosse obbligato a parlare se non desiderasse farlo: l’impegno era piuttosto di ascoltare gli altri mentre parlavano e di rispettare i lavori di ognuno.
I materiali a disposizione permettevano ampia libertà di scelta, dai più classici come matite, pennarelli ecc. a quelli riciclati come spago, conchiglie, scatole, giornali per il collage… All’inizio di ogni incontro veniva individuato un tema sul quale lavorare, frutto dello scambio verbale tra i partecipanti o da me proposto, come ad esempio la rappresentazione di sentimenti e il loro opposto (odio/amore, gioia/dolore, ecc.) oppure rappresentare un luogo significativo per ognuno, o l’animale preferito…. La mia funzione di conduttrice era quella di “custodire” uno spazio espressivo e di ascolto, dove ognuno potesse sentirsi visto e rispettato come persona unica e irripetibile, con i propri gusti, pensieri e sentimenti, senza mai giudicare ne tantomeno interpretare le immagini prodotte dai partecipanti, ma aiutando a mettere in relazione le esperienze e i sentimenti dell’autore con ciò che emergeva nei prodotti artistici e facilitando un percorso di riconoscimento di sé e di condivisione con gli altri.
È stata un’esperienza di gruppo nuova per tutti i partecipanti, un modo diverso di stare con se stessi e con gli altri, al quale i bambini e i ragazzi hanno reagito fin da subito positivamente e facendo buon uso per se stessi di quello spazio. Nel corso degli incontri è maturato un senso di fiducia e di apertura reciproci, e il laboratorio di arte terapia è diventato presto un punto di riferimento dove i partecipanti potevano sentire di essere se stessi ed esplorare pian piano sia le proprie ferite che le proprie risorse, venendo regolarmente agli incontri spontaneamente. Attraverso le immagini potevano parlare in modo simbolico e indiretto dei vissuti e dei sentimenti e gli autori potevano riflettere attraverso queste scoprendone significati e valori nuovi, dando senso e valore a se stessi e alla propria esperienza di vita.
I rapporti tra i partecipanti sono cambiati, hanno iniziato a conoscersi tra loro in modo più profondo, a creare alleanze, a cooperare e a prendersi il piacere di giocare con i colori e le forme.
Dopo i primi timidi collage, i bambini e i ragazzi hanno iniziato ad usare i materiali sempre più liberamente, a creare sculture di filo di ferro e creta bellissime, ad usare fogli anche molto grandi riempiendoli di pennellate a tempera, creando sfumature e forme in movimento di cui erano spesso molto soddisfatti. Creare, dare vita a qualcosa che fosse frutto delle loro mani e di tutto il loro essere è stata un’esperienza fondamentale che li ha aiutati a vincere l’immobilità e il senso d’impotenza.
Dopo alcuni mesi di frequenza del laboratorio, i bambini e i ragazzi hanno migliorato il proprio rendimento scolastico e i più grandi a fare progetti di studio per il futuro; questo ha significato trovare finalmente fiducia in se stessi e investire speranze ed energie nel mondo esterno.
In fondo non abbiamo fatto niente di straordinario. I bambini, gli adolescenti ed io: abbiamo creato la possibilità di stabilire relazioni sulla base del rispetto e dell’ascolto reciproco, abbiamo dato vita ad uno spazio in cui potersi esprimere senza essere giudicati e dove usare la propria creatività scoprendo che dalle nostre mani potevano uscire cose inaspettate, ricche e piene di significato. Si può dire che i partecipanti ai laboratori di arte terapia non avessero avuto fino a quel momento la possibilità di conoscersi veramente, pur vivendo quotidianamente nello stesso luogo, e nel laboratorio hanno avuto l’esperienza che possono scoprire in se stessi e negli altri molto di più di ciò che appare.
Un gruppo di ragazzi che vivono in un paese protagonista di una recente e terribile guerra e un team di colleghi in un’azienda italiana sembrano, all’apparenza, essere due contesti molto distanti tra loro. Ma stiamo parlando di gruppi umani, e ciò che favorisce o deteriora le relazioni e il benessere individuale in fondo non è molto diverso nelle due situazioni: alla base possiamo individuare aspetti che sono universali nei gruppi sociali umani. Il conflitto o la convivenza pacifica sono in definitiva il prodotto di ciò che nei gruppi umani viene “coltivato”, se si lascia spazio, o si trascurano, o addirittura in alcuni casi si nutrono volontariamente (per interessi di potere spesso) istinti come la paura dell’altro, rivalità e competizione, si scateneranno inevitabilmente dinamiche conflittuali. Dinamiche che possono arrivare a diventare irrimediabilmente distruttive se non “sanate” in tempo con interventi mirati a disinnescarne il potenziale e ad aiutare i protagonisti a recuperare il valore di se e il rispetto del valore dell’altro, insieme alla possibilità di riconoscere quanto la convivenza umana civile sia in definitiva la cosa più conveniente per tutti.
Forse un momento di incontro in uno spazio creativo ed espressivo, dove la mancanza di giudizio e l’ascolto gli uni degli altri sono basi fondamentali, potrebbe aiutare a superare stereotipi che spesso si nutrono verso chi ci sta vicino tutti giorni e facilitare la buona collaborazione di gruppo, ed in definitiva migliorare la qualità della vita quotidiana creando ambienti di lavoro sufficientemente sereni. Ma uno spazio creativo e di ascolto di gruppo vuol dire anche dedicare un momento a se stessi, sostenendo e rafforzando le nostre risorse creative e il nostro essere attivi e propositivi, quando la routine quotidiana ci travolge fino al punto di arrivare a perdere motivazione e interesse forse abbiamo bisogno di tornare a noi stessi e recuperare tutto ciò ritrovando ragioni ed energie nel nostro mondo interno.