A scandire le giornate pigre di un’estate ormai lontana ci sono state le Olimpiadi. Per un paio di settimane ci siamo lasciati incantare dai tuffi delle cinesi, dalle bracciate di Phelps, dai balletti di Bolt. Per un paio di settimane, osservando donne e uomini dai corpi perfetti compiere imprese straordinarie, abbiamo seguito appassionatamente gare di discipline sportive mai sentite nominare, abbiamo criticato impietosamente le scelte arbitrali senza conoscere le regole del gioco, abbiamo celebrato campioni di cui oggi fatichiamo a ricordare il nome.
A Pechino 2008 non c’era Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano amputato bilaterale, che corre grazie a due particolari protesi in fibra di carbonio. La vicenda di Pistorius aveva fatto molto discutere. Dopo aver vinto un oro e un bronzo alle Paraolimpiadi di Atene, Pistorius aveva espresso il desiderio di correre tra i normodotati alle Olimpiadi di Pechino 2008. Inizialmente l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera aveva respinto questa richiesta sostenendo che le due protesi procuravano a Pistorius un rilevante vantaggio meccanico. Nel maggio del 2008, però, è stata emessa una sentenza che avrebbe permesso a Pistorius di partecipare alle gare, dal momento che non esistevano elementi scientifici sufficienti per dimostrare che l’atleta traeva vantaggio dall’uso delle protesi. A Pechino – comunque – Pistorius non c’era perché non è stato abbastanza veloce: a Lucerna, durante le qualificazioni, non ha centrato il minimo olimpico dei 400 m per meno di un secondo.
Io so poco della storia di Pistorius, quasi nulla delle regole dell’atletica leggera, e un acca dei miracoli delle fibre di carbonio. Quello che mi incuriosisce nella storia di questo atleta è la sua normalità fuori dal comune, il suo desiderio di essere considerato come gli altri nel segno della differenza, la sua volontà di sbarazzarsi di quel prefisso para- pur rivendicando la sua diversità.
Il corpo di Pistorius ci pone delle domande, io credo. Le sue fibre scattanti, i suoi polpacci di carbonio, il sudore della sua fronte, i suoi piedi sintetizzati chimicamente forse ci chiedono di ripensare al confine tra umano e inumano, tra organo e strumento, tra vivente e inanimato.
In questa direzione ragiona Donna Haraway, una filosofa americana contemporanea, in un saggio significativamente intitolato Biopolitica di corpi postmoderni: la costituzione del sé nel discorso sul sistema immunitario. Haraway spiega come le nuove tecnologie biomediche, dall’ingegneria genetica alla chirurgia plastica, intervengano sui corpi attraverso processi di artificializzazione e di denaturalizzazione: il corpo cessa di essere un organismo naturale per divenire un surrogato tecnico.
Queste tecnologie hanno fatto esplodere, o implodere, i margini che per secoli hanno separato il naturale e l’artificiale, l’organico e l’inorganico, il proprio e l’estraneo. Il corpo diviene a tutti gli effetti una macchina in cui hanno luogo sinergie impensate tra l’inorganico e il vivente.
Inoltre Haraway ci fa riflettere sul fatto che ci troviamo dinnanzi a un’epocale inversione di tendenza: per secoli l’uomo ha tentato di tutelare e di rafforzare la vita proiettandosi nel mondo e poi nell’intero universo, “adesso è il mondo, in tutte le sue componenti naturali, artificiali, materiali ed elettroniche, chimiche e telematiche a penetrare dentro di lui”.
Se i piedi di Pistorius non accarezzano il terreno come quelli di Bolt, questo non significa che vi debba essere un confine invalicabile a separarli. In fondo entrambi – come tutti noi – appartengono a questa strana civiltà post-umana in cui la normalità si conquista attraverso la differenza. Pistorius può conquistare record grazie alle protesi di carbonio, così come Pamela Anderson ha potuto sfoggiare una quarta grazie a dei cuscinetti di silicone.
E così il corpo accoglie ciò che non è corpo, il dentro si sposa col fuori, il proprio si fonde con l’estraneo, in una catena di alterazioni e interazioni tra specie e mondi che per secoli sono stati ritenuti incompatibili e incomunicanti.
Il paradosso è che il corpo custodisce e prolunga la vita accogliendo al proprio interno la non-vita: l’inanimato e l’inorganico si iscrivono nella carne dell’uomo per differirne la morte.
Caterina Croce