UN PAIO DI RIFLESSIONI IRONICHE A USO DI COLORO CHE SVILUPPANO RELAZIONI DI AIUTO

Sensibilità desertificate e creativi a gusto zero
I telegiornali dedicano apposite rubriche ai ristoranti di grido, agli oggetti di culto, agli accessori di tendenza. Il portasapone diventa prodotto d’avanguardia, la borsa della spesa si eleva a status symbol, i bucatini all’amatriciana assurgono ad arte. Ormai, in quasi tutti gli aspetti della nostra vita, spopola la categoria del creativo. Cuochi e artigiani, sarti e stilisti, progettisti di siti web e guru della rete, designer e parrucchieri, ingrossano le fila di questa bizzarra categoria di produttori di oggetti ambiti e di esperienze desiderabili.
Insomma, se consideriamo l’immenso successo di cui godono oggi i creativi di ogni genere, saremmo indotti a credere che vi sia una tensione diffusa verso il bello, verso il buono, verso l’originale e l’audace. In altri termini, da consumatori rozzi pronti a godere di merce dozzinale staremmo diventando dei fini estimatori di prodotti unici ed eleganti.
Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: a fronte di così tanti “creativi” il nostro gusto si è raffinato o si è volgarizzato, si è specializzato o si è omologato, si è arricchito o si è impoverito? Queste sono le domande da cui prende avvio l’ultima ricerca di Pietro Montani, professore di filosofia estetica all’Università di Roma. Domande dotte che noi potremmo anche tradurre in questi termini: se l’incontro col sapore inedito si eleva ad evento artistico, com’è che i carrelli dei supermercati sono pieni di formaggini spalmabili a gusto zero, di bevanda alla frutta con l’1% di frutta, di pacchi di verdure surgelate in cui un broccolo mangiato ad occhi chiusi sembra tale e quale una melanzana? Oppure, se l’hair stylist è diventato una componente decisiva del nostro modo di stare al mondo, un indice altamente significativo della nostra personalità libera e inimitabile, com’è che negli ultimi due anni abbiamo visto così tante frangette tagliate a tendina, che dalla Bellucci fino alla signora Cicorin, mia dirimpettaia, hanno spopolato in tutta la penisola?
Secondo la tesi che Pietro Montani sostiene nel suo saggio Bioestetica, la nostra sensibilità – quella che i greci chiamavano aisthesis – va progressivamente livellandosi e desertificandosi. La nostra capacità di entrare in un rapporto sensibile con il mondo – una forchettata di spaghetti alle vongole, un moto di commozione per il discorso di investitura di Obama, un brivido di energia per una mattinata di sole nel grigiore di Milano – sembra impoverirsi dinnanzi all’imprevedibilità del reale. Secondo Montani, la modernità si è impegnata in un progetto assicurativo volto a salvaguardare gli uomini dalla contingenza del reale e a proteggerli dall’esposizione all’accidentalità della vita. Tra i vari esempi addotti da Montani, ne cito uno noto a tutti noi: il navigatore satellitare. Il navigatore, con le sue mappe interattive, crea un ambiente artificiale sostitutivo di quello reale: un ambiente ottimale e ottimizzabile in grado di arginare lo scompiglio del sensibile. La burrascosa imprevedibilità del reale è tenuta a freno dal codice binario di un programma in grado di portarci, è proprio il caso di dirlo, sulla retta via. Ma se in una notte d’estate vi trovate nei dintorni di Caltanissetta, su una strada secondaria per nulla illuminata, cercando disperatamente di raggiungere Siracusa, è molto probabile che il navigatore, con la sua deliziosa vocina metallica e tutte le sue mappette interattive, con un gesto ottimale – e senz’altro ottimizzabile – venga scaraventato fuori dal finestrino.
Stando alle riflessioni di Montani, dunque, vi sarebbero, da un parte, dei dispositivi tecnici tesi a ridurre la nostra attitudine a esporci all’imprevedibilità del mondo; e dall’altra dei processi creativi che circoscrivono e cristallizzano il senso estetico comune, attraverso pratiche e oggetti che verranno definiti prestigiosi o desiderabili. E così la nostra sensibilità, contratta e impoverita, diverrà il terreno su cui costruire una comunità omologata e banalizzata. Una comunità che Montani non esita a definire “comunità delle sensazioni inelaborate”, incapace, cioè, di tradurre in sentimento la superficiale fugacità della sensazione. Che cosa significa? Facciamo un esempio. In televisione trionfano i talent show, pieni zeppi, bisogna ammetterlo, di gente dotata. Come esperimento vi consiglio di contare il numero di volte in cui viene pronunciata la parola “emozione”: “mi hai regalato delle emozioni!”, “non è riuscito ad emozionarmi”, “questa era una canzone in cui bisognava emozionarsi”, e così via. Ma questo appello all’emozione, non nasconde un’incapacità di dire ciò che davvero proviamo? Non nasconde una povertà emotiva e lessicale di dare corpo e voce alle nostre sensazioni, per poi tradurle in sentimento e in pensiero? Non nasconde la nostra attitudine a sintonizzare la nostra emotività sui registri monocordi della “comunità delle sensazioni inelaborate”?
Insomma, è bello emozionarsi. Ma è anche bello credere che le nostre emozioni, piuttosto che essere il punto culminante del nostro processo estetico-emotivo, siano la scintilla germinale delle nostre scorribande nell’impalpabilità dell’immaginario e nella concretezza sensuale del sensibile.

Coca Cola, pop corn e neuroni – specchio
Non so se ve lo ricordate, quando si andava al cinema, il sabato pomeriggio, alle medie. Per me era bellissimo: suonava la campanella, si usciva da scuola, ci si fiondava al mercato vicino, al banco dei polli allo spiedo, a mangiare patatine fritte, crocchette, spiedini… l’importante era che tutto fosse unto e rigorosamente insano. Ci si abbuffava sui gradini della scuola, facendo il conto di chi aveva già limonato e di chi ancora doveva farsi coraggio: d’altra parte erano i tempi in cui Elio e le Storie tese cantavano “mille maniere d’amare con gli amici puoi sperimentare, ma prima c’è uno scoglio d’affrontare, prima è necessario limonare”.
E poi, alle tre, si andava al cinema: Coca Cola e pop corn. Quando andavo alle medie io – poco più di un decennio fa – erano usciti parecchi film sul genere horror-fantascientifico: invasioni aliene, navicelle spaziali, extraterrestri viscidi e sorprendentemente intelligenti. E così una volta, una fila di dieci tredicenni in fermento, guardava rapita un bellone hollywoodiano salvare il mondo dall’attacco di giganteschi mostri verdi. Fu allora – questa scena me la ricordo perfettamente – che la mia amica Gaia, presissima dai combattimenti del film, per schivare un colpo alieno, si piegò d’improvviso sulla destra, rovesciando la sua Coca-maxi sul povero Pippo, che dovette abbandonare la sala, bagnato dalla testa ai piedi. Insomma, fu una scena esilarante che ci fece ridere per settimane e che mi torna sempre in mente quando vedo qualcuno talmente preso da uno spettacolo – di danza, di boxe, di salto in lungo – che non riesce a stare fermo, ma accompagna i movimenti che osserva con piccoli scatti del suo stesso corpo. Bene, a questo nostro inconsapevole tentativo di emulare e condividere lo sforzo fisico che qualcuno sta compiendo davanti a noi, a questa strana forma di empatia motoria, oggi sembra essere stata trovata una spiegazione. A Parma, un gruppo di neuro-scienziati, guidati da Giacomo Rizzolati, ha scoperto l’esistenza dei neuroni-specchio, ovvero di neuroni molto particolari che si attivano sia quando compiamo in prima persona una certa attività sia quando vediamo altri che la compiono. È stato dimostrato che esistono dei neuroni che non sono né solo visivi né solo motori: essi, infatti, si attivano sia quando siamo spettatori sia quando siamo attori di una certa azione.
Lo studio dei neuroni-specchio è davvero degno di nota perché ci permette di capire quale sia la base neurale della comprensione delle azioni altrui. La comprensione originaria, pragmatica, processuale dei gesti degli altri non dipende da straordinarie capacità cerebrali d’ordine complesso, ma dalla condivisione di un medesimo patrimonio motorio che ci rende immediatamente intelligibile il senso delle azioni altrui.
Non si tratta, ovviamente, di una consapevolezza esplicita, ma dell’immediata capacità di riconoscere nei movimenti altrui gli atti che noi stessi agiamo: quando vediamo qualcuno compiere un’azione che riconosciamo – in virtù del fatto che essa è entrata a far parte del nostro vocabolario d’atti – il nostro sistema motorio entra in risonanza con l’azione osservata, arrivando così a comprenderne il senso. Facciamo un esempio. Quando vediamo qualcuno afferrare del cibo e portarlo alla bocca, si atttivano i neuroni-specchio, ossia gli stessi neuroni che sono all’opera quando noi stessi siamo i soggetti di quell’azione. Se vediamo un cane che scodinzola, i neuroni specchio non si attivano, si attivano solo dei neuroni visivi. Eppure, direte voi, noi sappiamo cosa significa un cane che scondinzola: è contento, è arrivato il suo padrone, gli stanno per tirare un bastone. Tuttavia, abbiamo imparato a comprendere il senso di quel movimento grazie ad altre facoltà cerebrali che non riguardano l’immediatezza del nostro patrimonio monotorio: noi non abbiamo una coda, non sappiamo scondinzolare. Certe azioni ossservate, dunque, ci risultano chiare ma non ci coinvolgono al punto di averne un’istantanea esperienza, come se fossimo noi stessi a compierle. I neuroni specchio sono in grado di codificare l’informazione sensoriale in termini motori, tanto che la risposta neurale di noi osservatori può essere letta come un atto potenziale, che anche noi potremmo compiere dal momento che fa parte delle nostre strategie motorie. I neuroni specchio, dunque, ci aiutano a capire come sorga uno spazio d’azione condiviso, ovvero un orizzonte di reciprocità in cui i nostri atti, gestualmente comprensibili, possono incontrarsi ed aggiustarsi.
I neuroscienziati che si occupano di queste faccende hanno rivelato che l’attività dei neuroni specchio è correlata a dei meccanismi di controllo e inibizione che impediscono che l’atto potenziale si trasformi poi in atto effettivo: sarebbe un bel problema, se ci mettessimo a riprodurre tutte le operazioni compiute da chi ci sta intorno! Eppure esistono particolari situazioni di partecipazione emotiva in cui l’attività dei neuroni specchio sfocia in una atto di liberazione motoria incontrollabile. Gaia, nel buio di quel cinema, doveva essere tanto presa dalle vicende del film, che ha tradotto bruscamente in realtà effettiva la sua empatia motoria. Peccato per Pippo: quel pomeriggio stava per accedere alla casta di quelli che avevano già limonato. Ma, bagnato di Coca Cola dalla testa ai piedi, non ha avuto chances.

Caterina Croce

 

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