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Chi non ha mai commesso un errore
non ha mai provato nulla di nuovo.
Albert Einstein
Il presente è sostanzialmente intriso di una spasmodica ricerca della perfezione. Le culture occidentali sono sempre più volte a rappresentazioni precise, spesso ricorrendo alla forma della matematica e dell’esigenza sistematica del reale. Ma la realtà è già un errore o una verità fra un numero infinito di possibilità. La perversione di questa visione del mondo ci porta poi a credere che il reale debba disciplinarsi e disporsi secondo modelli, concetti, etichettature e gabbie cognitive varie, per cui la nostra relazione con il mondo diventa una relazione con quei modelli interpretativi che diventano la realtà stessa.
Dal punto di vista soggettivo, la vita non è solo una successione di eventi, ma è sostanzialmente il modo in cui noi ce li raccontiamo e noi a questa narrazione reagiamo come fosse la realtà, che non sappiamo bene neppure cosa sia. Se normalmente entriamo in quei modelli culturali, diventa molto difficile uscirne e raccontarcela in altro modo. Questo è il problema.
Oggi in Occidente tutto ciò che fuoriesce da queste gabbie, ciò che deborda da esse, ogni paradosso, contraddizione o incertezza, viene percepito come elemento di disturbo, come errore, come elemento da eliminare dal reale. Abbiamo un intransigente senso di ribellione per tutto ciò che eccede questi limiti del nostro fragile modello epistemologico o, come lo abbiamo chiamato, della gabbia cognitiva in cui insiste il nostro pensiero.
Questo insieme di modelli li abbiamo (o li hanno) costruiti per abitarli e soprattutto per far scomparire tutto ciò che disturba e che viene considerato errore inaccettabile e da eliminare. La miseria, la malattia, la vecchiaia, la morte, il brutto, la tristezza, l’insuccesso, la fatica, lo sporco, l’ignoranza, devono scomparire. Non sono ammissibili, neppure la stasi o il rallentamento del nostro auspicato progetto di continua crescita. Il grande pericolo è che fuori dai confini ben delimitati non può esistere nessun sapere e nessun pensiero. Eppure, proprio oggi che scopriamo la fallacia del nostro sapere e la limitatezza del progetto velleitario, ottimistico, scientista e tecnologico, della modernità, potremmo renderci conto dell’utilità dell’errore come sorgente di soluzioni alternative e positive, di progetti più utili per noi, ora. Proprio ora che ‘anche i ministri piangono’ nel presentarci le ‘misure anticrisi’.
Ma questa società che categorizza e che cerca di togliere il diverso, l’errore, il ‘marcio’, il ‘mal nato’ non si avvede che ciascuno diventa sempre più escluso dall’altro e viceversa: conoscersi poco e superficialmente porta a trafficare da soli con le nostre imperfezioni ed i nostri errori per tentare inutilmente di farli scomparire, di celarli anche a noi stessi, e quando scopriamo poi che non riusciamo ad essere felici ed a cambiare le cose secondo il nostro volere, restiamo paralizzati di fronte alla perdita dell’onnipotenza promessa ovunque. La tristezza, la depressione, la solitudine, la mancanza di desiderio e di passione si evidenziano nelle nostre sempre più difficili relazioni interpersonali e sociali.
Tutti parlano di sicurezza e di privacy, come al tempo stesso ricercano altrettanto ossessivamente forme, le più disparate, di contatto e di comunicazione a 360 gradi. Comunicazioni virtuali, preferibilmente, questo per creare una società dell’accesso, che possa permettere relazioni asettiche e ovviamente sicure, dove le nostre proiezioni diventano amabili a noi stessi, belle o nemiche che siano.
Così, se non ci sentiamo abbastanza belli, magri, sani, forti, equilibrati, sicuri, allegri come vorremmo, come noi stessi pretenderemmo sempre di essere, ci afflosciamo. Commettere errori ci terrorizza. La sicurezza viene ricercata a tutti i livelli, e di questi errori ne attribuiamo la colpa e la responsabilità agli altri, all’economia, alla politica, allo stato, e sembra che nulla e nessuno ci possa aiutare per ritrovare la forza di reagire all’impotenza emergente. Così siamo soli e spesso contro. Ricorriamo ad avvocati, guardie, serrature a prova di bomba, a gruppi organizzati contro il nemico di turno e cerchiamo di rifuggire l’altra faccia della medaglia, quella che temiamo come la morte, cioè il sospetto di essere anche come nel film di Ettore Scola: ‘brutti sporchi e cattivi’, o peggio, falliti o folli.
Lentamente ma progressivamente, certo pericolosamente, il discorso ossessivo sulla sicurezza sembra giustificare la minaccia di un ritorno all’egoismo e alla barbarie. Si ricorre così ad una possibilità paranoica di parlare solo della necessità di proteggersi e di sopravvivere attraverso il ricorso al sentimento di libertà da qualsiasi principio o divieto. Questa è l’unica verità che sembra predominare. Difficile è pensare di inventarsi nuove forme di narrazione nel terreno esterno, nella realtà debordante, ma a volte capita. Nelle verità dominanti troviamo solo previsioni molestanti, mentre l’unico grido ottimistico arriva da un assai vago e poco convincente: ‘Dobbiamo pensare positivo!’
Ma come si fa a pensare positivo se ci appare come un dovere? E’ perverso. Se siamo tristi, sempre più tristi, se il nostro desiderio è spento, se la paura ci blocca, come uscirne? Sarà l’Uomo della Provvidenza a trainarci … o sarà l’ultimo ritrovato della scienza e della tecnologia a salvarci?
Il Dalai Lama ha osservato acutamente: «Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi… perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente; in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.»
Realtà e verità sono solo una della miriade di soluzioni possibili.
Ma allora come possiamo riconoscere l’errore e farne una sorgente di cambiamento, di miglioramento? Come fare a capire di avere sbagliato? Se abbiamo sbagliato e se non possiamo che ammetterlo, dovremo pensare che abbiamo deviato da un cammino giusto, previsto e sicuro. Cioè abbiamo tradito in qualche modo la Verità, nonostante il progredire delle conoscenze, delle tecnologie, delle scienze in genere e delle nostre e altrui esperienze. Ma qual’ è poi la Verità? Di essa che cosa possiamo conoscere? Porre una verità come tale potrebbe poi risultare controproducente.
A questo punto ci troviamo di fronte alla possibilità di stabilire quale sia la Verità. Bene, la Verità risiede in un errore, è una verità storica, cioè incline al suo tempo, e quindi come tale passibile di cancellazione. Non una verità assoluta, ma una verità considerabile meno sbagliata delle altre in quel momento, destinata ad essere superata in un momento successivo. Un pensiero emergente quindi, che se diffuso e condiviso, diventa una verità solida, a volte dominante, ma sempre relativa al proprio tempo e alle condizioni in cui questo stesso tempo si esprime.
Siamo sempre stati indotti a credere che la Verità dovesse per forza esistere. In realtà non è così. La verità è un pensiero particolare, non assoluto, perché solo essendo particolare avrà la possibilità di essere attaccabile da meno punti di vista possibili. E comunque ancora non sarebbe che un prodotto storico, frutto del nostro errore. Se la verità è particolare e soggetta al cambiamento, allora è tale perché noi ci siamo sbagliati. Abbiamo creduto ad una verità partendo da un errore, ma è stato quell’inconsapevole errore di produzione a scatenare la ricerca dell’errore stesso. Ecco salvati lo sviluppo, l’evoluzione e i cambiamenti a questi connessi. L’errore è quindi insito alla verità, ne è la causa sostanziale, ed è il motore del superamento della verità stessa. Siamo quindi giunti alle verità effimere di Edgar Morin, temporanee e biodegradabili, quella dei giorni nostri che aumentano le nostre insicurezze, ma anche le opportunità di libertà e di innovazione, se troviamo il coraggio di non restare schiacciati dall’insicurezza stessa. Per cui le certezze sono temporanee e l’errore è normalità.
L’Io forte e l’Io fragile

Tornando alle culture occidentali, affrontiamo di nuovo il concetto che esse sono sempre più rivolte a rappresentazioni precise, spesso ricorrendo alla forma della matematica e della visione sistematica del reale, per poter credere che il reale debba disciplinarsi e disporsi secondo modelli, concetti, per cui la nostra relazione con il mondo diventa una relazione con quei modelli interpretativi che diventano la realtà stessa.
Ad esempio, nella nostra cultura, e soprattutto in quella americana, il grado di forza/debolezza, diviene una delle ‘gabbie’ di significato dominanti per l’essere umano. Il successo è un dovere, il fallimento è l’inferno. Ma il segnale del successo è un risultato che trova la sua declinazione nel rapporto-confronto con gli altri. E’ nel confronto con l’altro che mi è più facile riconoscere ‘chi vince’ e ‘chi perde’. Così anche l’autonomia diventa in fondo la dominanza sugli altri, e quindi il parametro della forza. Dipendere da altri è segno di debolezza. Libero è colui che domina, o, mentendoci, come spesso accade, ad esempio a livello politico, identificandoci con chi domina, pensiamo di difendere la nostra libertà e invece automaticamente diventiamo ‘servi’.
I comportamenti nelle nostre culture mitizzano l’autonomia/dominio e aspirano a conquistare un potere sugli altri e sull’ambiente intorno, che consenta così di perseguire i propri scopi e di soddisfare le proprie voglie, senza ostacoli e senza l’opposizione di chicchessia. E’ questo l’Io forte che cerchiamo di realizzare per divenire lupi performanti in una vita, che vediamo produttiva e utilitarista, troppo spesso contro altri. Il Desiderio incerto e che non sa spesso quasi nulla dell’oggetto finale, trova una propria fantasmatica declinazione in tante ‘vogliette’ che il consumismo più bieco ci propone. E se in questo periodo di crisi, l’essere umano non trova ciò che desidera, si accontenta di desiderare ciò che trova.
I numeri allora sono i segnalatori, sono i sintomi, i segnali, che determinano il nostro successo o meno, perché sono confrontabili con quelli altrui. Ma sono indiscutibili queste classifiche? Non proprio, ma se si va sul denaro direttamente, allora è tutto più chiaro e qui la ‘scarsificazione’ diventa il senso di dominio per chi ne ha disponibilità e ‘terrorismo’ vero e proprio per chi si sente espropriato, ad esempio dallo stato tramite ‘misure restrittive’, a causa di lontane e poco chiare crisi economiche.
Nel lavoro poi le quantità vendute, il reddito raggiunto, i compensi e i ricavi, lo ‘spread’, sono il metro di misura per determinare il confronto che ci dirà se siamo vincitori o vinti, al di là poi se decideremo di essere pietosi o impietosi con gli altri.
Ma non può essere solo così
Credo che l’oriente ci affascini con il suo mistero, perché più o meno consciamente abbiamo bisogno di capire di più ciò che ci accade, dobbiamo completare “l’altra metà”, per così dire, e di andare contro la filosofia aristotelica che impera in occidente, contro la realtà binaria: bianco o nero, bello o brutto, buono o cattivo, mi piace o non mi piace. Ad Aristotele si contrappone Buddha, che visse due secoli prima in India, e che cercò, nella sua dottrina, di individuare le molte contraddizioni che esistono nel mondo, di accorgersi che nel bene c’è un po’ di male, e viceversa, che nel bianco c’è un po’ di nero, e viceversa. Non una visione monoteistica della verità e della realtà, ma un approccio politeistico a più verità e realtà in contraddizione tra di loro.
Ma lo stesso alfabeto ci può indicare come sia diverso l’approccio alla visione del mondo che noi viviamo: da un lato abbiamo un alfabeto, quello occidentale, impregnato di metafisica, logico e con una assoluta linearità assiomatica che con una sicurezza illusoria incasella la realtà, ne fornisce una versione granitica ed assolutamente certa. Dall’altro versante troviamo una lingua scritta, come quella orientale, che accenna, simboleggia e si adatta al contesto, una lingua che non fornisce certezze, che “fa intendere” una delle molteplicità verità che intendiamo esprimere: molto spesso lo stesso simbolo può rappresentare suoni differenti, e suoni differenti possono essere rappresentati nello stesso modo. Il rigore occidentale contro l’anarchia orientale.
Ma allora, anche l’errore può essere considerato un’occasione di ripensamento? Potrebbe essere il momento dell’analisi e della trasformazione dei nostri comportamenti che ci permetterà di arricchire la nostra padronanza sul processo e sugli elementi di cui trattiamo? Non è forse l’occasione per cambiare e per appassionarci ancora di più alla nostra lotta per un risultato migliore, pur se a volte, sarà considerato anche contro la cultura dominante e addirittura contro quello a cui noi stessi crediamo?
Gianni Marocci