Una decisione condivisa è meglio di una decisione presa in totale solitudine. Questo è quello che devono aver pensato, centinaia d’anni orsono, Domenico Scandella (detto Menocchio) e Giulia Carta. L’uno e l’altra hanno avuto problemi molto seri con l’Inquisizione: Domenico è stato condannato al rogo nel luglio del 1601, mentre Giulia – pur riuscendo a sfuggire alla morte – visse gli ultimi anni della sua vita (siamo intorno al 1605), alternando il carcere a momenti di (pseudo) libertà nel paese dove viveva e condannata comunque a portare per sempre l’abito penitenziale. Con tutto ciò che questo comportava in relazione al succedersi degli atti di vita quotidiana. E’ certo che visse di stenti e che morì in miseria.
Che relazione potrebbe però esserci tra Menocchio, Giulia e il volontario di oggi ? Ragioniamone.
Domenico Scandella nasce nel 1532 (Le notizie sulla biografia di Domenico Scandella, si trovano nel libro di Carlo Ginzburg “Il formaggio e i vermi”, Torino, Einaudi, 1999). e, all’epoca del primo processo, aveva cinquantadue anni. Sposato, con sette figli, ha quasi sempre vissuto nel suo paese natale: Montereale, nel Friuli.
Faceva il mugnaio e del mugnaio portava l’abito: una veste, un mantello e un berretto di lana bianca. Così vestito si presentò al processo. Ma perché era stato denunciato al Santo Uffizio? Per quello che oggi chiameremmo reato d’opinione. L’accusa era di aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo. Non solo. Aveva addirittura cercato di diffondere le proprie opinioni, argomentandole e sostenendole. E questo aggravava di molto la sua posizione agli occhi degli Inquisitori.
Soleva ragionare di cose di fede un po’ con tutti e quel che è peggio discuteva anche con le persone più “istruite” di lui, suscitando proprio per questo un certo scandalo. Dava, in sostanza, fastidio. L’opinione comune era infatti che le cose della fede fossero alte e difficili, fuori quindi dalla portata di mugnai e calzolai. Per discuterne ci vuol dottrina e i depositari della dottrina sono anzitutto i chierici.
Menocchio aveva le idee chiare e le difendeva. Pensava che all’inizio tutto fosse caos. Cioè terra, acqua, aria e fuoco erano un tutt’uno. Formavano una gran massa che subì una trasformazione simile a quella che subisce il latte quando si fa il formaggio e quando dal formaggio imputridito, cominciano a nascere i vermi. Questi vermi furono gli angeli e tra questi angeli vi era Dio stesso. Un Dio che si fece signore del tutto con quattro capitani: Lucivello, Michael, Gabriel e Rafael. Lucivello volle paragonarsi al re e farsi a sua volta signore ma Dio lo punì per questo atto di superbia e lo scacciò dal cielo con tutto il suo ordine. Dio fece poi Adamo e Eva e tutto il popolo degli uomini. In quanto poi gli uomini non stavano seguendo i comandamenti di Dio, il Signore mandò in terra suo figlio “il quale li Giudei lo presero, et fu crocefisso”. Questa è la visione cosmogonica di Menocchio, seppur riassunta in termini molto approssimativi. Se a ciò si aggiunge che per il mugnaio Domenico l’aria è Dio, la terra è nostra madre, Dio non è altro che un po’ di fiato e tutto ciò che si vede è Iddio e noi stessi siamo dei, si può ben capire come la Chiesa cattolica si sentisse in obbligo di intervenire. E intervenne come gli equilibri di potere di allora le hanno consentito: mandando al rogo il povero Menocchio. Doppiamente sfortunato, Domenico Scandella. Prima di tutto, in quanto cento o duecento anni più tardi, le sue opinioni (il formaggio, il latte, i vermi-angeli, Dio-angelo creato dal caos) sarebbero state probabilmente prese come innocue stravaganze. Ma in piena Controriforma il clima era diverso e prioritaria era la necessità di colpire qualsivoglia forma di eresia.
In secondo luogo, perché il suo avvocato difensore aveva un nome che era tutto un programma. Si chiamava infatti Trappola.
Giulia Carta (Le notizie sulla biografia di Giulia Carta sono tratte dal libro di Salvatore Loi, a cura di, Inquisizione, magia e stregonerie in Sardegna, Cagliari, AM&D, 2003) aveva trentacinque anni all’epoca del primo processo. Casalinga, di estrazione popolare, nasce a Mores e abita a Siligo, nel sassarese. Sposata in seconde nozze con il contadino Bernardino Nuvole, allatta al seno un bimbo di quattro mesi dopo averne persi ben sei. Di che cosa era accusata?
“…di essere una guaritrice, che ricorreva però a pratiche magiche e a amuleti confezionati in modi strani, rivolti a proteggere dai mali chi li portava; di essere in genere una fattucchiera, in altri casi indovina e sortilega e alla fine strega che aveva stretto – per svolgere tutte queste attività fuori del comune – un patto col demonio. Ma anche un’altra accusa pesantissima gravò su di lei: quella di essere eretica ‘luterana’ per aver negato in circostanze riferite da più testimonianze, la necessità della confessione sacramentale.”
Molto efficiente e operativamente efficace, Giulia Carta. Pratica i suffumigi e prepara svariati rimedi curativi. Utilizza cuori di gallina nera, essenze vegetali, materiali presi da luoghi sacri, calzoni di tela rubati, pupazzi di pasta trapassati da spilli e da chiodi, misurazioni complicatissime delle articolazioni del corpo umano, funi con le quali operare per individuare nel sottosuolo fatture nascoste. Utilizza inoltre fuoco, lino, canapa, acqua benedetta, orina, vino, ossa di morti, monete varie, tegole, cocci, fili d’oro. E’ una donna sapiente, come sapienti erano state ed erano le donne chiamate “streghe” e proprio per la loro disturbante sapienza, inquisite, perseguitate e in genere mandate a morte.
Per evitare la tortura, ammise le sue “colpe”. In particolare la relazione col demonio, che spesso si manifestava nella sua stanza sotto forma di strana entità fluttuante nell’aria.
La conclusione del testo curato da Salvatore Loi è la seguente:
“Rimane impressa nella nostra mente l’immagine di una donna di Sardegna ricca di saperi e di risorse, ingegnosa, intelligente, astuta o studiatamente ingenua, fiera, battagliera e tenace, capace di tener testa con atti e con parole sempre confacenti alle più diverse circostanze, alla più formidabile istituzione giudiziaria dell’epoca moderna, riuscendo a non rimanerne schiacciata.”
Menocchio, Giulia e il volontario d’oggi, dicevamo. E nello specifico, la sensazione, sperimentata di tanto in tanto dal volontario, di sentirsi solo, quasi “schiacciato” da un’altra formidabile istituzione dei giorni nostri: l’organizzazione sociale.
Il mugnaio Menocchio e la fattucchiera-sapiente Giulia erano a loro modo “soli”, ma di una solitudine vissuta e vivibile in termini soggettivamente sostenibili in quanto e l’uno e l’altro avevano un ideale forte e massiccio. Domenico e Giulia avevano dei valori in cui credere. E questa sorta di fede alternativa alla fede ufficiale e imposta dal potere indiscusso che la Chiesa di allora aveva, è loro costata cara. La loro era una solitudine metaforica e contingente. In realtà, erano e saranno sempre in compagnia di una moltitudine di uomini e di donne che – nei secoli – hanno difeso la propria dignità e i valori in cui credevano. Anche a costo della vita. Oggi, a loro, sono stati dedicati addirittura due libri.
Ma il volontario d’oggi ? Qui ci troviamo di fronte al rischio di confrontarci con una solitudine inquietante, sterile, depressiva.
Come uscirne?
Menocchio e Giulia ci indicano la strada. Il primo, suggerendo al volontario di oggi di avere il coraggio delle proprie idee. L’importante sarà però averne almeno qualcuna. Ed essere convinti del fatto che delle cose del mondo tutti – e non solo i chierici – possono discutere, svolgendo osservazioni interessanti.
La seconda, offre l’occasione di riflettere sulla necessità di studiare, raccogliere dati, informazioni, elementi, vivificandoli con la propria intelligente creatività operativa.
Il volontario che – oggi – si ispirasse al modo d’essere nel mondo di Menocchio e di Giulia, sarebbe forse un po’ meno solo.
Lo Spirito Folletto