Guardate lo zero, e non vedrete niente.
Guardate attraverso lo zero e vedrete il mondo.
Robert Kaplan, Zero. Storia di una cifra.
Nei pressi di Volterra
L’immaginare che regole paramatematiche e oggettive siano di per se stesse un valido auto alla comprensione delle cose del mondo, è un’illusione deresponsabilizzante. Così come è destinato a fallire ogni tentativo di rendere geometricamente perfetti e lineari percorsi, vie e sentieri che viceversa spesso saranno fangosi, poco riconoscibili e tortuosi. E che potrebbero condurre a ruderi ormai inabitabili.
Viene dunque posta una questione di fondo: è vero o non è vero che paradigmi, protocolli, regole e in definitiva la “tecnica” che sta alla base delle più svariate operazioni umane, limita o addirittura annulla l’assunzione di responsabilità individuale? Si tratta di un tema posto a suo tempo, e con forza, da Umberto Galimberti e che si presenta a tutt’oggi con tratti di indubbia attualità. La sfida, per noi, è: non è possibile eliminare “la tecnica” tout court; il problema non è “la tecnica” bensì i modi, l’uso che di questa “tecnica” gli umani fanno. Non è infatti scritto da nessuna parte che, agendo “tecnicamente”, si sia solo per questo esonerati dall’assumersi le proprie responsabilità in ordine a ciò che via via facciamo. Ma è tuttavia vero che ciò accade abbastanza spesso, in famiglia come al lavoro. Il dibattito è aperto.

In piazza Mameli, a Savona, tutti i giorni, alle sei del pomeriggio, la campana posta sul monumento ai Caduti batte ventun colpi. Ventuno quante sono le lettere del nostro alfabeto. Al primo rintocco, passanti e autoveicoli si fermano, restando immobili fino al ventunesimo rintocco.
“I cittadini – così è scritto sulla targa antistante il monumento – sono invitati a un momento di pausa e di riflessione.” Un breve spazio di silenzio per ricordare i Caduti di tutte le guerre. E ciò accade da ottant’anni.
La cittadinanza savonese, ormai da molti decenni, si è assunta la responsabilità della memoria e del ricordo. Con un’azione intima e concreta, trasversale ad ogni credo ideologico.
Nel linguaggio comune si dice di una persona che è responsabile quando si vuole indicare che questa stessa persona include, nei motivi del proprio comportamento, la previsione degli effetti possibili connessi alla decisione di agire (N. Abbagnano).
Nel caso citato, i cittadini savonesi possono – in quest’ottica – essere definiti “responsabili”? In altre parole: quali le conseguenze previste e prevedibili correlate alla decisione di restare immobili al rintocco della campana di piazza Mameli ? L’effetto possibile di un tale restare immobili è dare spazio e luogo al riposo attivo della mente e del pensiero. “Un momento di pausa e di riflessione” che rende “responsabili” tutti coloro che – liberamente – hanno scelto, scelgono e sceglieranno di riconoscersi un tale diritto.
Ecco allora il punto: discorrere del concetto di “responsabilità” comporta e significa soprattutto la messa fuoco di azioni concrete. Di un fare che precede la parola e naturalmente si correla alla libertà di scelta.
In una conferenza tenuta il primo dicembre 2001 (dal titolo: “Educarsi e educare alla responsabilità”), Silvia Vegetti Finzi discute in apertura del termine “responsabilità”, proponendone una variante interpretativa sul piano etimologico: “res”, “cose”, è collegato a “pons”, “pondus”, “peso”. Saper sopportare il peso delle cose. Etimologia senz’altro scorretta, dice Silvia Veggetti Finzi, ma che tuttavia ben risponde alla necessità di considerare l’impegno anche fisico che la responsabilità richiede a coloro che la esercitano nonché la dimensione sociale che la caratterizza.
E in un’altra più recente conversazione tenutasi qualche anno fa al Monastero di Bose, Umberto Galimberti interloquisce con un insegnante che pone la seguente domanda;
“Mi chiedo (per poterlo poi spiegare ai miei alunni) come un popolo – che io continuo a stimare, come quello tedesco – abbia potuto cadere così in basso consentendo crimini come Auschwitz. Un popolo che ha dato i natali ai maggiori scienziati e ai maggiori filosofi, come ha potuto fare ciò che ha fatto?”
Galimberti risponde in modo articolato, ma a noi ciò che maggiormente interessa è il riferimento al rapporto tra responsabilità individuale e tecnica. Sintetizzando, quindi:
Il nazismo è potuto accadere perché era l’anticamera, la premessa, la forma che avrebbe assunto il nostro tempo, cosa di cui non siamo ancora consapevoli. E’ quella che io vado chiamando Età della Tecnica e che faccio iniziare proprio dal nazismo. Che cosa ha fatto il nazismo come struttura formale, come modo di pensare ?
Nel nazismo si è determinata quella che è stata poi la forma dell’età della tecnica: un’autolimitazione della responsabilità alla pura esecuzione dei compiti. Cosa significa ? Franz Stangl, capo del campo di concentramento di Treblinka, in una serie di interviste (raccolte poi in un libro tradotto oggi anche in italiano: In quelle tenebre”, edito da Adelphi), alla ricorrente domanda “Cosa provavi a fare tutti quei massacri ?”, rispondeva di non capirne quasi il senso. “Io venivo qui alle nove, alle 11 veniva un carico di tremila persone che dovevano essere soppresse entro le tre del pomeriggio perché poi sarebbe arrivato un secondo carico. Il metodo individuato funzionava. Questo era il mio lavoro”. Basta, lui era semplicemente un funzionario che eseguiva un lavoro. Punto. Senza assumersi nessuna responsabilità delle conseguenze del suo lavoro.
Quando Hanna Arendt scrive La banalità del male, dice sostanzialmente questa cosa. Erano degli impiegati, erano dei funzionari, erano degli esecutori di ordini.
Nel dopo guerra, nei processi che si sono potuti svolgere, i generali e gli imputati dichiaravano: “Ma io ho eseguito ordini”.
Questa è stata l’inaugurazione della condizione comune di tutti noi che viviamo nell’età della tecnica, dove siamo responsabili solo del nostro mansionario, in qualsiasi apparato noi ci si trovi ad operare. Siamo responsabili del nostro mansionario e siamo tenuti al massimo rispetto del nostro superiore ma non siamo responsabili delle conseguenze delle nostre azioni. Da ciò siamo esonerati.
Lasciamo il campo di concentramento e andiamo in qualche fabbrica di mine anti-uomo del bresciano e chiediamoci: “Costoro che costruiscono mine anti-uomo, sono operai o sono delinquenti ? “ Probabilmente risponderemmo che sono operai, perché se offrissimo loro la possibilità di andare a lavorare in un’industria alimentare magari aumentandogli lo stipendio, probabilmente ci andrebbero. Ma che cosa è per loro “bene” e “male”? Fare bene o male le spolette delle mine anti-uomo. Questa è la loro virtù. Essere bravi o non bravi a fare questo mestiere.
Attenzione, allora, quando si usa la parola lavoro, perché la parola lavoro si usa ormai per indicare una riduzione della responsabilità e si limita a identificare una buona esecuzione delle azioni descritte e prescritte dall’apparato di appartenenza.
L’operazione nazista è riuscita, è accaduta perché già ci si stava preparando a quella che è la forma della società della tecnica. Tu sei responsabile del tuo piccolo settore e delle azioni che ti vengono prescritte dal tuo apparato. Sei responsabile di fronte al tuo superiore. Ma le conseguenze finali di tutto l’apparato cui tu appartieni, innanzitutto non le conosci e anche se le conoscessi, non sono di tua competenza.
Beh, Gunter Anders dice che l’essenza del nazismo è questa: è stato un teatrino di provincia; è stata la prova generale per la riduzione generalizzata dell’assunzione di responsabilità. Ecco che forse questa cosa non gliela può spiegare ai ragazzi. Però teniamola presente come sfondo.
Pura e semplice provocazione alla moda di Galimberti ? Tentiamo un abbozzo di risposta chiedendoci: è vero o non è vero che ognuno di noi ha la tendenza a delegare ad altri (magari, al “sistema”) la responsabilità di ciò che accade, soprattutto se ciò che accade dovesse avere ricadute negative e spiacevoli ? La risposta non può che essere: è vero.
Gli esempi – numerosi – vanno dall’ambito famigliare (quanti genitori si assumono la responsabilità di educare i figli in maniera tale che si avviino ad essere “bravi e consapevoli cittadini ?), all’ambito socio-politico (è molto raro sentire una qualsiasi compagine politica assumersi la responsabilità di ciò che di negativo accade. Basti pensare alla situazione che Napoli sta da anni vivendo o all’incapacità di smaltire i depositi di amianto o le scorie radioattive), all’ambito del lavoro ( delle numerose morti, che bianche non sono affatto, chi ne è responsabile… ?).
La tecnologia e la tecnica (per Galimberti, questa è l’età della tecnica così negativamente intesa) si costituiscono come comodo baluardo difensivo rispetto al (non) essere ciascuno di noi individualmente responsabile (o almeno, corresponsabile) delle proprie, personali scelte.
“Dipendesse da me, lo farei anche ma purtroppo queste sono le procedure, queste le regole, queste le norme, questo il protocollo e non posso farci nulla”.
Questi erano gli ordini è la linea di difesa assunta da qualsiasi criminale di guerra accusato di crimini contro l’umanità.
E in ciò non si può dar torto a Galimberti. Ma allora ? Difficile uscirne. A meno che non si conviva serenamente con il rischio di subire le conseguenze dei propri atti di libera scelta. Di denunciare, ad esempio, le condizioni in cui si è a volte costretti a lavorare, condizioni che si costituiscono come oggettiva premessa di infortuni e incidenti. Il comportamento omertoso è però (e purtroppo) molto più diffuso di quanto non si pensi e non è esclusiva caratteristica delle comunità mafiose.
Lo Spirito Folletto