Progettare gli spazi di vita, di studio e di lavoro. Tavola rotonda coordinata da Monica Onore

L’incontro risale a qualche tempo fa ma forma e contenuto della tavola rotonda sono ancora di grande attualità. Si tratta inoltre di un discreto e affettuoso modo per ricordare Giacomo Rizzi, amico che se ne è andato a scattare le sue fotografie in un altrove sconosciuto.

Incontriamo Raffaella Trocchianesi e Giacomo Rizzi nell’ufficio che condividono, presso la sede del Politecnico alla Bovisa (Milano) per sapere da loro cosa significa progettare gli spazi dove molte persone si ritroveranno a lavorare, e quanto – a loro giudizio – gli spazi possono influenzare la qualità delle relazioni interpersonali.

Raffaella Trocchianesi. troccaniesiArchitetto & designer, Docente alla Facoltà del Design, Politecnico di Milano. Si occupa prevalentemente di design per la valorizzazione dei beni culturali, design degli interni e della comunicazione.

 

rizziGiacomo Rizzi. Architetto, Docente di Metaprogetto e Architettura degli interni presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Si occupa sia di progettazione che di ricerca, svolgendo contestualmente la libera professione. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni.

onore

 

MONICA ONORE
Che cos’è per voi il progetto?

 

GIACOMO RIZZI
Il progetto è proiezione, poi naturalmente devi mediare tutto ciò che pensi, rispettando le vere necessità che il luogo da progettare richiede.
Componi il progetto sapendo che stai creando uno spazio per delle persone che svolgono delle attività estremamente diverse. Devi usare l’esperienza, la creatività, ma anche la riflessione sui reali bisogni che gli utenti possono avere.
Lo spazio è comunicazione, luogo d’incontro e di costruzione di relazioni interpersonali, che devono potersi sviluppare in modo naturale.
Oltre alla funzionalità del progetto ci devono essere elementi gradevoli, necessari per poter vivere il luogo di lavoro nel miglior modo possibile.
Ovviamente ogni progetto ha vari gradi di complessità, perché non è solo un’esercitazione formale di una risposta funzionale ad un esercizio pratico, ma comprende appunto aspetti molto diversi.

RAFFAELLA TROCCHIANESI
Quando noi progettisti ci poniamo di fronte a degli obiettivi da risolvere dal punto di vista delle risposte progettuali, prevediamo, detto in modo un po’ semplicistico, quattro fasi che si possono così riassumere: osservare la realtà, fare un modello della realtà, intervenire sul modello e verificarlo nella realtà stessa.
Queste quattro fasi richiedono impegno, creatività ed esperienza da parte del progettista, perché l’osservazione della realtà dal punto di vista critico mi permette di fare anche dei trasferimenti d’innovazione da settori diversi, permettendomi così di creare nuovi scenari di progetto.
Fare un modello della realtà significa ricreare un modello reale, spostato in avanti con delle aperture verso il futuro, che prevedono anche degli spazi di progetto per l’innovazione e l’intervento sul modello e quindi sul progetto e la verifica.
Operiamo nel campo dell’architettura e del design sempre di più, quando ci poniamo di fronte a degli obiettivi progettuali. Qui noi parliamo degli spazi di lavoro, ma ovviamente possono essere anche altri.
Siamo sempre di più volti a lavorare sul sistema prodotto, quindi, non solo sulla dimensione dello spazio, ma anche su quello della comunicazione del servizio.
E’ sempre più difficile a priori andare a capire su cosa il tuo progetto si focalizzerà, perché solo in corso d’opera sperimenterai queste quattro fasi.

M.O.
Un progetto si realizza partendo dall’osservazione della realtà. Come la osservate la realtà?

R.T.
Munari diceva che è importante cambiare il punto di vista, il che significa sapersi spostare per ottenere le diverse visioni. Bisogna saper cercare. Il punto di vista diventa un sistema di filtri, che si scelgono a secondo dell’obiettivo e il target con cui ti devi confrontare.
Diciamo quindi che la scelta del punto di vista è in stretta relazione con l’obiettivo che ci poniamo.

G.R.
Molte volte i progettisti commettono l’errore di presunzione di conoscere qualunque realtà, bisognerebbe invece calarsi nella realtà e conoscerla da vicino prima di lavorare su un progetto. E questo a tutti i livelli.
Come atteggiamento professionale dico sempre che è meglio progettare “con” che progettare “per”.
E’ difficile, ad esempio, dovendo progettare per l’ente pubblico o una grande azienda, conoscere esattamente quale tipo di lavoratore andrà a occuparne gli spazi e moltiplicarne i bisogni per tutti gli utenti.
Per quanto complesso però, bisognerebbe provare a conoscere la realtà lavorativa, il che significa che si dovrebbe vivere nell’ambiente impiegatizio, operaio, pubblico o privato, a seconda degli spazi che si progettano, cercando di vedere e conoscere da vicino quello che succede. Osservare quindi, significa vedere oltre il dato statistico, oltre l’esperienza riportata da altri, questo funziona sia per un incarico urbanistico, sia per un incarico di architettura d’interni o di design degli interni.
Perché avere sempre presente a che target si rivolge il progetto, significa, soprattutto conoscere come si articola la loro giornata lavorativa.
Bisogna capire i fenomeni conseguenti di stress, insoddisfazione o di soddisfazione, a seconda dei casi, e così verificare quali sono i bisogni reali, che sempre si misurano nel tempo e si modificano nel tempo. Molte di queste constatazioni vanno fatte prima di iniziare il progetto.

M.O.

Lo spazio è un luogo di relazioni, ma come si vivono gli spazi sul lavoro?

G.R.
Gli spazi devono poter fare esprimere le persone, perché le relazioni interpersonali sono importanti e se positive portano ad una maggiore soddisfazione, e conseguentemente migliorano la qualità del lavoro e delle attività svolte.
Quando i rapporti si deteriorano e assistiamo a casi di mobbing, ovviamente ne risentirà non solo la relazione, ma anche il prodotto del lavoro.
Noi abbiamo fatto alcune esperienze con la Camera del Lavoro di Milano e l’Umanitaria anni fa, che hanno confermato che gli spazi hanno proprio bisogno di essere vissuti come luoghi dove il lavoratore si può esprimere. Dove poter trovare la sua soddisfazione e dimensione domestica, quindi personale, e allo stesso tempo dove sviluppare relazioni di gruppo, oltre che la dimensione tecnica e funzionale per lo svolgimento delle sue mansioni.
Sostengo ancora, che bisogna arrivare a dare salute, sicurezza e soddisfazione, perché il lavoratore deve trovarsi a proprio agio e provare un benessere che non sia soltanto fisico. Senza un benessere psico-fisico, infatti, non s’immedesimerà con il suo lavoro, ma cercherà di svolgere soltanto l’indispensabile, il minimo. In sostanza, si limiterà a fare solo quello che non può fare a meno di fare.
La soddisfazione sul lavoro viene in parte determinata anche dallo spazio e dall’uso che il lavoratore può farne. Ad esempio, avere la possibilità di personalizzare gli oggetti e i mobili in uso, rende il clima di lavoro molto più gradevole e quindi il grado di soddisfazione generalmente è più alto.

R.T.
Mi viene in mente, sul discorso delle relazione, la metafora della città, e di come si sta evolvendo da un punto di vista urbanistico e sociale.
Forse le dinamiche di trasformazione ed evoluzione urbana di questi ultimi anni possono valere parallelamente anche per alcuni spazi di lavoro
Se pensiamo ad una scala dal macro al micro, la metropoli e i grandi centri direzionali, la città e la media impresa, la piccola impresa o l’unità lavorativa singola, lo studio e la casa, possiamo notare che alcuni problemi che si devono affrontare nella città sono proiettati anche nell’ambiente di lavoro, ovvero hanno delle dinamiche simili. Come ad esempio la difficoltà negli spostamenti, la mancanza di verde e spazi per il rilassamento, i problemi di dispersione .
Dal punto di vista relazionale, sul lavoro in qualche modo si riproducono le stesse dinamiche che potremmo paragonare anche alle dinamiche di vicinato.
Le conoscenze, l’uso dello spazio, le situazioni che si possono creare. Ognuno ha bisogno di relazionarsi e allo stesso tempo ci sono molti problemi di isolamento e solitudine.
Questa potrebbe essere una chiave di lettura per stimolare il progettista a riprendere dei comportamenti progettuali.
Sulle relazioni mi viene in mente un altro esempio. Quello della trasmissione televisiva Camera cafè. Se infatti, lo spazio delle macchinette è ancora un così forte catalizzatore , tanto da costruirci sopra una sitcom, vuol dire che c’è ancora molto da fare nei luoghi di lavoro, da un punto di vista del progetto, perché manca la consapevolezza, da parte della gestione, della necessità di qualificare gli spazi di lavoro, che devono essere anche spazi, come diceva Giacomo, di benessere.
La componente svago nella fase del progetto è molto attuale. Lo svago può essere inteso come un momento di relazione, di rilassamento o riflessione Può essere uno svago virtuale o reale.
Reale perché In molti centri direzionali, infatti vengono previsti grandi spazi con giochi e palestre. Virtuale perché c’è la possibilità di utilizzare spazi multimediali.

M.O.
Ma se si progetta lo svago sul luogo di lavoro, si rischia di non lavorare solamente, di lavorare meno…

G.R.
Produci di più se riesci ad avere dei momenti di svago, perché se hai anche perso qualche minuto, poi lo recuperi con più concentrazione, perché sei soddisfatto.
Ecco perché sono importanti anche le piccole cose per trovarsi bene sul luogo di lavoro.
Piccole cose personali che esistono in tutti gli uffici, come ad esempio, il calendario, la cartolina, la fotografia, e tutti le appiccicano un po’ alla buona, con la puntina, il nastro adesivo. Non esiste progettualmente uno spazio già deputato e attrezzato per accogliere e ricevere le personalizzazioni del lavoratore.
Questo, invece, farebbe parte di una espressività dello spazio per il lavoratore, è inutile tenere le cose nascoste nel cassetto e guardarsele ogni tanto, quando uno le può tenere in vista, tenere addirittura in mostra e sentirsi così maggiormente soddisfatto.
La stessa cosa vale per le piante, il verde. Ho visto che ha una grandissima importanza, a tutti i livelli, sia per il presidente della grande azienda che per il semplice impiegato. Il verde migliora la gradevolezza dell’ambiente, dello spazio e favorisce di volta in volta la concentrazione. L’essere circondati da uno spazio ricco e rigoglioso, che trasmette un senso di vitalità aumenta la serenità e il piacere di passare del tempo nel luogo di lavoro.
Nella redazione di Domus, ad esempio, ogni ufficio ha, fuori, una vetrata inclinata su cui l’acqua scorre sempre, e questo per creare un’atmosfera tranquilla e lavorare con la presenza di questo elemento naturale.
Non pretendo che tutti gli uffici siano fatti così, anche perché c’è un problema di costi, ma l’attenzione ad alcuni i piccoli particolari può favorire una atmosfera di benessere pisco-fisico che è fondamentale.
Secondo me, ancora la grande azienda non ragiona in termini per cui la qualità dello spazio porta anche ad una maggiore qualità del lavoro.
Avere un’ ambiente molto soddisfacente, piacevole, vuol dire immedesimarsi ed identificarsi nel lavoro. Va da sé che l’identificazione nel lavoro produce una maggiore qualità del lavoro.

M.O.
Come sono cambiati gli spazi degli uffici?

G.R.
I grandi open space vengono sostituiti piano piano, perché è alienante lavorare troppo vicini, in poco spazio, con telefoni che squillano e voci che parlano in continuazione.
Gli spazi esigui, una piccola scrivania con un pannello per poter creare la propria isola, non più grande di un metro quadro, non facilitano uno stato di benessere.
Si è scoperto che l’open space non funziona, perché nessuno ha più un minimo di privacy né di concentrazione per poter svolgere il proprio lavoro. Si crea un’atmosfera di continua sollecitazione piena di stimoli visivi e sonori dati dagli altri, e non dal proprio impegno o dal proprio rapporto con il lavoro.
Quindi si torna a nuove forme di spazio, che non sono più gli uffici alla vecchia maniera, quella dei due impiegati uno di fronte all’altro, perché si pensava che bene o male in due si lavora meglio o ci si distrae meno.
Bisogna aumentare le possibilità per cui il lavoratore si possa immedesimare nel proprio spazio, sentendosi a proprio agio.

R.T.
Nei grandi studi, ancora, si preferiscono gli open space, perché si ha l’intenzione di far partecipare tutti al progetto, ma è vero che siamo sempre più bombardati da rumori, e informazioni. Lo spazio più raccolto, personalizzato può di certo favorire la concentrazione.
Ma bisogna pensare che il luogo di lavoro è influenzato anche dal fiorire di spazi dedicati a lavoratori nomadi, che hanno la necessità di trovare spazi d’uso temporanei e spersonalizzati.
Soprattutto nelle grandi città è piu facile trovare un angolo tuo, ma che può essere usato anche da altri. Si creano stazioni di lavoro non private e questo ci fa capire che sullo spazio del lavoro, si stanno muovendo dinamiche molto diverse.

M.O:
Perché negli spazi di lavoro non è quasi mai presente il colore, che potrebbe essere invece un elemento (non così costoso) per rendere più accogliente un luogo di lavoro ?

G.R.
Il colore non viene mai usato, perché c’è l’abitudine a pensare che uno spazio appare più prestigioso se il colore è neutro. Risulta più serio il bianco, il grigio.
Un esempio, in questo senso, lo danno le banche, che propongono manifesti di polizze per la vita, con persone contente e sorridenti, ma poi hanno ambienti e sportelli, estremamente asettici. Tutto è grigio, al massimo si vede una riga di arancione.
Sarebbe, invece, una grande opportunità usare il colore nei luoghi di lavoro, per poter così esprimere la vitalità, l’energia e differenziare gli uffici, le zone comuni.
Gli stessi servizi igienici, gli antibagni, gli spazi per fumatori sono sempre molto anonimi. In questi luoghi potrebbero essere offerti degli spunti particolarmente piacevoli, per sostare con più “gusto” sul luogo dove si lavora. Ma questa mentalità è ancora lontana dalla nostra cultura.

R.T.
Io credo che il problema sia di natura molto prosaica, che il progetto semplicemente non arrivi a questi livelli di definizione. Credo che gli interni non siano progettati e siano lasciati all’autogestione di chi si occupa della logistica.
Non sempre è così, alcuni progetti arrivano fino in fondo, come l’esempio che tutti conoscono delle poste italiane firmato da De Lucchi, che ha modificato la comunicazione delle Poste ma anche gli interni.
In luoghi come ospedali, uffici, aziende, il progetto si ferma prima. Non c’è ancora la cultura della definizione che arrivi a progettare l’arredo, il colore.

M.O.
Come immaginate il futuro degli spazi di lavoro ?

R.T.
Bisogna saper accettare spazi e tempi più incerti, dove è difficile tracciare il perimetro, e anche gli spazi di lavoro devono allinearsi a questa tendenza.
Queste, per me, sono le parole chiave da usare, perché ancora non ci sono degli scenari veri e propri. Bisognerà anche tenere presente che i luoghi di lavoro saranno anche spazi di apprendimento, di formazione. Non saranno più solo luoghi funzionali, ma dovranno essere anche luoghi di conoscenza e quindi di trasformazione.
Gli uffici dovranno adeguarsi alla nascita di altre realtà, di lavori “immateriali”, che dovranno convivere e andare incontro alle nuove figure professionali più ibride, poco catalogabili.

G.R.
Gli spazi del lavoro, dovranno essere sempre più facilmente trasformabili.
Oggi si progettano degli edifici che abbiano una trasformabilità più facile, vedi i grandi centri commerciali. E’ bene che i grandi edifici siano pronti ad ospitare nuovi modi di lavorare, o nuovi modi di trovarsi, perché magari si lavorerà altrove.

M.O.
Com’è il vostro ufficio, che cosa vi siete portati?

G.R.
Questo è un edificio pubblico, qui prima c’era il pubblico registro automobilistico, fatto con componenti modulari asettici e, come puoi notare, anche abbastanza alienanti.
Ci siamo portati i libri, che servono per l’insegnamento e l’aggiornamento, questo pannello a colori, alcune fotografie. Osservando il nostro ufficio si può capire che non ci piace lo stile tradizionale.

R.T.
Siamo abituati a spazi comuni, e per questo abbiamo deciso di unire tre scrivanie che formano così un grande tavolo, in modo che la scrivania sia mimetizzata e ci sia l’idea di laboratorio. Non è il nostro ideale di spazio, ma come tutti cercano di fare, lo abbiamo personalizzato!

G.R.
Questo tavolo per noi è una piazza dove ci si incontra per scambiarci idee, per incontrare gli altri in maniera meno schematica e rigida.
Anche la disposizione di un tavolo infatti racconta di come ci si vuole rapportare all’altro.

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