TRA CAOS E COSMO (RIDISEGNARE COSTE E PUNTI DI VISTA) CONFINE E FRONTIERA NEL MONDO DEL VOLONTARIATO

Il confine è una figura di profonda ambivalenza. Lo sapevano bene i latini, per cui il limen era insieme via e frontiera, limite e percorso, termine e traccia. Il confine, infatti, è il perimento dell’esclusione e l’avamposto dell’accoglienza; il lungo abbraccio dell’addio e la corsa scomposta del ricongiungimento; l’imposizione tagliente di una costrizione e la presa rassicurante della protezione.
Forse, è proprio per questo suo statuto ambiguo che la figura del confine ha conquistato un posto tanto centrale nella filosofia contemporanea. Luogo di transito, di scambio, di alterazione, il confine è diventato la figura prediletta del pensiero che ha abbandonato la roccaforte dell’Essere e si è inoltrato nello spazio meticcio del divenire.
La filosofia moderna si occupa di soggetti, Stati, sostanze. E lo fa determinando confini, limiti, steccati. È per questo che invoca il giudizio, l’Ur-teil, il taglio originario che separa e distingue. Il problema della filosofia moderna è quello di ricondurre il caos a cosmos, lo scompiglio all’ordine.
Un filosofo contemporaneo, Gilles Deleuze, prende a prestito un’espressione da James Joyce e ci propone di abitare una nuova figura, il caosmos, quella regione a mezza via tra la linea armonica del cosmo e l’implosione informe del caos. E così, in bilico tra l’azione disciplinante del giudizio e il frastuono indecifrabile dell’indifferenziato, la filosofia contemporanea diserta la spiaggia e si lancia nel mare. Ma non si abbandona ai flutti: goffa e maldestra, prova a surfare. Prova a stare sulla cresta dell’onda: sulla linea del divenire che taglia e congiunge.
Il movimento dell’onda che instancabilmente ridisegna la costa, Gilles Deleuze, per complicarci la vita, lo chiama territorializzazione e deterritorializzazione. A noi interessa l’immagine evocata da questi termini impronunciabili, e cioè che il territorio – e con esso i soggetti, gli Stati, le sostanze – non sia un’unità precostituita, una rigida determinazione dell’Essere, ma l’evento contingente e provvisorio di una continua fluttuazione.
Il confine, allora, cessa di essere la linea invalicabile che assicura ai soggetti l’esercizio della propria sovranità e la ratifica della propria autonomia, per diventare, piuttosto, il margine liquido e poroso di un’incessante negoziazione.
La filosofa americana Judith Butler, che ha lavorato a lungo su questi temi, cita la scrittrice Gloria Anzaldùa, che per via dell’intricato complesso di tradizioni culturali in cui si trova immersa – “chicana, messicana, lesbica, americana, accademica, povera, scrittrice e attivista” (J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi Editore, Roma) sfugge a una facile definizione identitaria.
Sto sul limite, dove la terra tocca l’oceano
dove terra e acqua s’incontrano
a volte si confondono delicatamente
a volte e altrove si scontrano furiosamente.
Una ferita aperta lunga 1.950 miglia
che divide un pueblo, una cultura,
scorre lungo il mio corpo,
pianta pali di recinzione nella mia carne,
mi lacera mi lacera
me raja me raja
Questa è la mia casa
questa sottile linea di
filo spinato.
Ma la pelle della terra non ha cuciture.
Il mare non può essere chiuso in un recinto,
el mar non si ferma ai confini.
(…) Il confine tra Stati Uniti e Messico es una herida abierta dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina. E prima che si formi una cicatrice, la ferita torna a sanguinare, e dal sangue di due mondi nasce un terzo paese – una cultura di confine ( G. Anzaldùa, Terra di confine/La Frontera, Palomar Edizioni, Bari)
Scrive così Gloria Anzaldùa, in un libro che significativamente porta un doppio titolo Bordelands/La frontera, come se né l’inglese, né lo spagnolo bastassero, da soli, ad evocare profili, ferite, ricchezze e contrasti di quella terra di mezzo.
“Questa è la mia casa” scrive Anzaldùa, iscrivendo la sua vita in quel solco di contraddizioni chiamato confine. Ma in fondo non è così per tutti noi? Oggi che i flussi migratori, la circolazione di merci, le transizioni di capitali ridisegnano i nostri paesaggi, quel solco di aspettative e delusioni, di speranze e frustrazioni, di sodalizi e di intrusioni non si estende, forse, al mondo intero?
Vivere nel caosmos significa accettare che i confini siano il nostro orizzonte quotidiano. La sfida che ci attende usciti dalla porta di casa.
E se è così per i nostri confini geografici – oggetto di una continua contrattazione che ne ridefinisce pieghe, blocchi e linee di fuga – cosa accade a noi: ai nostri confini fisici, psichici, identitari?
Se c’è un confine che riscuote la nostra piena fiducia è quello del nostro corpo: la nostra pelle traccia i limiti del dentro e del fuori, del proprio e dell’improprio, dell’unità dell’organismo e della dispersione del mondo. Eppure il pensiero contemporaneo ci aiuta a capire che il corpo di ciascuno accetta l’incursione dell’altro, anzi che la sua storia ha inizio con l’incursione dell’altro. Prima di dire “io”, io sono un essere che è stato toccato, spostato, nutrito, cambiato, curato, cullato. La formazione del nostro corpo, spiega il grande psicoanalista inglese Donald Winnicot, non sarebbe possibile se non ci fosse quell’azione di holding, di contenimento, che trova nell’abbraccio materno il suo più efficace prototipo fisico. Affinché il bambino si costituisca come Sé unitario e senta la sua bocca, le sue braccia, le sue gambe come parti di un medesimo corpo, è necessario che venga tenuto insieme – con-tenuto – dalla madre, che proteggendolo e avvolgendolo crea l’ambiente fisico ed emotivo favorevole al suo sviluppo. Ecco allora che i nostri confini corporei emergono e si strutturano nella melodia relazionale scandita dalle cura materne: da quell’abbraccio che, cingendoci, ci assegna un posto, una riva, un approdo.
È bene ricordarsi, tuttavia, che quell’approdo, così faticosamente conquistato, è il punto di partenza di una nuova deriva. Anche per la definizione del nostro corpo adulto l’immagine della fortezza inviolabile sembra poco appropriata. Toccato, sfamato, guardato. Snellito, vestito, svestito. Tatuato, abbracciato, graffiato. Sembra che ci sia un gran via vai alle frontiere del nostro corpo. E se i primi mesi di un bambino sono la metafora per eccellenza dei segni tattili che gli altri incidono su di noi iscrivendosi nella nostra storia, la gravidanza è un’immagine straordinariamente potente delle trasformazioni che animano il corpo quando lo Stesso fa spazio all’Altro.
Gianna Nannini, in una canzone scritta durante la gravidanza, scrive alla figlia Penelope “sposti tutti i miei confini”. I contorni di un corpo adulto si trasformano, l’uno diventa due, l’io dice noi.
Ma non credo che qui sia in gioco solo il fenomeno biologico di un corpo che si dilata per generare una nuova vita. I confini muteranno senza posa perché quella vita è stata messa al mondo e se ne andrà, poi un giorno, per il mondo. E così quel corpo materno, rientrato senza troppi sforzi in una dignitosissima 42, stenterà a ripiegarsi su se stesso: sarà sballottato e stiracchiato là dove quella vita deciderà di andare.
E così eccoci riconsegnati alla saggezza antica, all’ambivalenza del limen. Né dentro né fuori, né mio né tuo, né uno né due. Forse tre. Di certo molti, come le onde del mare.

Caterina Croce

 

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