Questo è l’insegnamento del volontario: non avere per essere, ma essere per divenire. A colloquio con Gianni Marocci
Che cosa possiamo intendere con il concetto di spazio sovrano?
Per l’individuo è primario vivere ed agire in uno spazio sovrano; lo spazio sovrano è uno spazio sociale in cui ci si sente padroni, e ogni uomo desidera la sovranità del proprio spazio e del proprio tempo sociale. Così accade anche ai bambini e ai ragazzi di cui si occupa ciascun volontario.
Ogni persona ha la tendenza a impadronirsi del proprio spazio sovrano e il poterlo controllare, porta gli esseri umani ad adottare comportamenti ambivalenti, che si esprimono nel proporre e nell’imporre, nell’interessarsi e nell’agire un influenzamento e in quell’investimento che spesso si attua come dominio sugli altri.
L’individuo, di fronte al sociale, dispone di due alternative: insistere per controllare il sociale oppure rinunziarvi e scappare. La partecipazione è la prima tendenza; l’alienazione è la seconda. Tutto ciò dà origine a tre conseguenze: la rinuncia alla sovranità, considerata troppo difficile e costosa da raggiungere, che abbiamo chiamato alienazione; la lotta per aumentare il proprio grado di sovranità, sentito come insufficiente, che denominiamo estraneità; e infine la percezione di una sovranità parziale, adeguata, non totale ma sufficiente, che definiamo appartenenza.
E con il concetto di onnipotenza infantile?
L’onnipotenza infantile richiede continuamente una sovranità sul mondo, ma il principio di realtà la ridimensiona continuamente, riducendone l’influenza a piccoli territori.
In effetti il nostro territorio, inteso nel senso fisico, come proprietà, ma anche come dimensione psichica di privilegio o di potere, non è altro che la protesi spaziale, cioè una sorta di prolungamento psicofisico del nostro Io, al tempo stesso minacciato e voglioso di espandersi.
Questo significa possesso e privilegio; vi sarà poi negoziato o delimitazione, ma prima di tutto vi è bisogno di sovranità.
Lei discorre spesso di società dell’avere e società dell’essere, un paradigma interpretativo interessante...
La struttura dello spazio delle società dell’avere è tutt’altra cosa da quella della società dell’essere. La prima si fonda prevalentemente su un’etica individualistica. Le modalità di approccio sono quelle del dominio, del possesso. Anche quando si tratta dell’uso estetico dello spazio, questo uso è sempre espressione del bisogno del singolo, frutto della potenza, dei mezzi economici e dei gusti del Principe e dei suoi architetti, pittori, e così via.
La società dell’essere si fonda su un etica socializzata, lo spazio. E’ destinato all’incontro, alla crescita, frutto di una società pluralista, democratica e, almeno nelle premesse, ecologica.
Gli esseri umani sanno creare delle strutture repressive che, introiettate, influenzano gli individui stessi in un gioco di progetto plurale che non può essere sempre del tutto condiviso. Ci adeguiamo alle culture e ai climi, ma la nostra voglia di modificarli ricrea un progetto che dall’istanza individuale ripropone la paradossalità di progetti plurali che tendono a modificare di nuovo le strutture stesse. E’ un processo circolare che va dall’obiettivo al soggettivo, dall’esterno all’interno, dall’ordine al caos, per ritrovare un nuovo ordine e così via. Il sentimento del potere è connesso alla percezione di essere attori, almeno in parte, ovvero partecipi, di tale cambiamento con le paure conseguenti, con le inevitabili resistenze. Ragionando al contrario, la struttura, pur condizionando l’individuo, non può condizionarne del tutto il comportamento nel senso previsto, come un cambiamento di mentalità, o di clima.
Vi è poi il paradigma della complessità…
Il paradigma della complessità cerca di spiegare in che modo i sistemi sono capaci di prodursi e riprodursi acquisendo così una struttura durevole nel tempo. E’ una “teoria” nata inizialmente per comprendere i sistemi biologici e cognitivi e i suoi stessi sostenitori negano una sua efficace rilevanza per comprendere i sistemi sociali. Ciò nonostante, è estremamente interessante, inevitabile e utile considerarla in tale ambito, seppur con prudenza.
A esempio non si può non sottolineare l’importanza di una delle principali affermazioni autopoietiche, cioè che “l’identità di un sistema è il suo risultato più importante” (Maturana , Varela, 1985). Se la teoria dei sistemi sottolinea che i sistemi sociali, sono guidati da obiettivi, e che i rapporti con l’esterno, con l’ambiente circostante, vengono strutturati e plasmati per esercitare un potere al fine di realizzare tali obiettivi, la teoria dell’autopoiesi afferma che i sistemi strutturano i loro rapporti con l’ambiente per mantenere un senso di identità e agiscono sugli ambienti come estensioni di se stessi. Ciò implica innanzitutto la relazione tra potere e identità e secondariamente ci dice che per influire su un sistema sociale, o su un’organizzazione, incidere sul suo senso di identità significa incidere sul suo potere. Se cerchiamo di modificare solo gli obiettivi, la comprensione del sistema nei confronti dell’ambiente esterno rimane immutata. Se invece riusciamo a influire sul senso di identità, possiamo creare una potenzialità che il sistema può sfruttare e utilizzare per riorganizzare la comprensione di sé e dell’ambiente.
Il soggetto quindi, da un lato tende all’autoconservazione, dall’altro si estende, si espande. Entrambi i processi sono fortemente intricati e non facilmente scindibili.
Che cosa possiamo intendere con il termine Confine? E con il concetto di Frontiera?
A livello di territorio si crea il confine, quella delimitazione fisica come autodifesa che definisce quindi la linea di separazione fra sé e il resto.
Il territorio della frontiera è poi il luogo immaginario di interfaccia con l’altro da noi, la possibile e temuta soglia. La cellula primordiale trova nella propria membrana la zona di confine. Essa è rivolta a proteggere l’interno, a percepire le minacce dall’esterno e a rendere possibile l’espansione, permettendo così la conservazione dell’identità.
Il concetto di confine sottolinea soprattutto l’atto difensivo/offensivo di affermazione e riaffermazione della sovranità anche espansionistica, imperialista, colonizzatrice, ma non modificabile. E’ l’identità come postulato.
Il concetto di frontiera invece rimanda alla dilatazione come possibilità di oltrepassare la soglia, come speranza di diffondersi, di contaminare, di influenzare. Essa quindi propone l’identità come processo, come percorso, come viaggio, come progetto. Se il confine porta a concentrarci sul bisogno di conservazione all’interno, la frontiera ci spinge verso un sogno lontano, verso un desiderio di miglioramento.
A livello relazionale, il confine riafferma l’identità, la cultura vigente, l’integrità e l’unità del soggetto. Il confine si espande per poter diffondere i propri valori, miti, usanze e altro. E’ l’atto del conquistatore che impone altrove le proprie leggi, la propria verità e il diritto conseguente di sovranità. Si rifà a un’azione aggressiva di imposizione della propria istanza. Quando dall’individuo si diffonde al sociale, potremmo chiamare tutto ciò “ingordigia sociale”.
La frontiera, al contrario, non è concetto legato all’” avere per essere” quanto all’”essere per divenire”. E’ sempre azione di potere che potremmo riconoscere non tanto come bisogno di “ap-parte-nenza”, cioè di sicurezza, quanto come desiderio di “parte-cipazione”, rischio, insicurezza come plus. E’ influenzamento che mette in gioco la propria unità in nome dell’essere “parte” di qualcosa di diverso e plurale. E’ quindi il desiderio di anteporre il nuovo, il diverso alla riconferma del noto, dell’uguale. Le relazioni fra esseri umani hanno bisogno di confini per difendersi, ma anche di frontiere come soglie verso un possibile cambiamento ed interscambio.
E una volta superata la frontiera, potremmo essere accolti e ospitati…
L’ospitalità è il tempo e il luogo di incontro nel territorio di frontiera che si nutre di spirito pionieristico.
E’ il tempo di attesa per elaborare quelle strategie che ci porteranno poi verso diversi stadi di socializzazione.
L’ospitalità può essere infatti definita anche come la presa di coscienza del confine come limite e della frontiera come risorsa o possibilità. Se il confine è dimensione più obiettiva e definita, la frontiera è più soggettiva e sperimentabile. Il confine riporta all’appartenenza come sicurezza, la frontiera è tendenza al rischio, magari controllato.
Le frontiere si costituiscono sulla base di altri fondamenti come quello di movimento, cioè di avanti e indietro, di passaggio, cioè di dentro e di fuori.
Si può così rappresentare il confine come difesa, come muro contro… come limite quindi, oppure come frontiera, difficoltà da superare, da valicare, come invito a vedere oltre, come dentro o fuori rispetto a un desiderio, a un sogno, a un’ipotesi.
E’ pur vero che, in questo nostro “sperimentare”, in questo nostro tentativo di vedere oltre, la variabile del Potere fa di tanto in tanto capolino…
Ma cos’è questo potere che tanto desideriamo e altrettanto temiamo?
Un importante problema è che, quando si parla di potere, si tende a colpevolizzarlo. Il potere nella concezione di R. May (1972) è la capacità di impedire o di sviluppare cambiamenti.
Esso ha due dimensioni: il potere come potenzialità, come dimensione latente, come capacità; e il potere come attualità, come effettivo risultato. Vi E’ una relazione fra i due; infatti un alto sentimento di potere accompagnato da un basso livello di potere attuale, non può che tradursi in onnipotenza illusoria con una conseguente scarsa prestazione, e così un sentimento di potere molto inferiore al potere “reale” non può che portare alla demotivazione, all’impotenza, quindi, come nel caso precedente, a una manifesta scarsità di prestazione.
Lottare contro può favorire lo sviluppo di benefici processi di identità?
A volte l’identità si determina anche nella lotta contro, nel contropotere che si ribella al vigente. Il potere competitivo quindi è il potere “contro” gli altri, una forma di stimolo procurato dall’esistenza del “nemico”.
Il potere nutriente è il tipico potere della “lotta per” gli altri, poiché è l’influenza esercitata per qualcuno, a favore di altri. Questi ultimi potrebbero anche non gradirlo e rimproverarci perché non ce l’hanno chiesto, perché lo vivono come manipolatorio e così via.
Il potere integrativo – infine – è il potere esercitato “con” altri, è il crescere insieme in modo sinergico, è il potere a somma variabile che non si interroga sulla quantità o sulla ripartizione.
Il cambiamento della qualità del potere si sviluppa lungo questa scala, da quello sfruttante a quello integrativo. Ma è pur vero che nella realtà delle relazioni, le cose si complicano e si intricano caoticamente a dispetto della teoria.
Il Benessere può essere abitato? E il Lavoro può essere inventato?
Abitare coincide con la ricerca del benessere, che è lotta e cura per la relazione. E’ influenzamento “per” e “con” gli altri più che “su” e “contro” gli altri.
Oggi sono cambiate molte cose nel nostro modo di vivere e occorre fare un discorso diverso da quello che comunemente viene fatto sul lavoro.
Il lavoro rappresenta una conseguenza e un’origine del processo di appropriazione e di negoziazione dell’onnipotenza umana. Questa attribuzione di senso è per sua natura non casuale: e questo è il senso dell’appropriazione. L’attribuzione di senso è da considerarsi sia un’appropriazione che una costruzione, perché ognuno si sente padrone delle cose che ha fatto e tende a fare le cose di cui si sente padrone.
Il processo di sensificazione, che in italiano si esprime con le tre parole di assenso, dissenso e consenso, può essere considerato tipico del lavoro dell’uomo.
Per questo occorre trattare il lavoro anche in modo psicologico e vederlo nelle sue componenti psichiche, più che in quelle fisiche. Occorre pensare che il lavoro non esiste in sé e quindi deve essere “scoperto”, ma viene continuamente costruito nelle menti degli uomini e quindi deve essere “inventato”. Ai ragazzi viene invece continuamente posto il problema della distinzione (nord americana) tra job e worker, tra posizione e lavoratore, come se le due cose fossero distinguibili. La dolorosa conseguenza è la disoccupazione che non è solo effetto dell’economia, ma anche e soprattutto della mentalità.
ll lavoro, se lo si esamina soggettivamente, rivela tre nature impreviste e utilizzabili nella psicologia di frontiera.
La prima natura che rivela è quella di “sensificatore”, cioè di produttore di senso, cioè di assenso, dissenso e consenso, alle cose che noi facciamo.
La seconda natura è quella di produttore di benessere, anzi della modalità più frequente di produzione di benessere nella società d’oggi: il lavoro è produttore di benessere soggettivo che si avvale appunto dell’organizzazione.
La terza natura è quella di “costrutto”, cioè di prodotto dell’invenzione mentale umana: questo ci permette di affermare che il lavoro non esiste in sé, ma viene continuamente inventato dagli uomini, tanto da poter dire oggi che il lavoro non lo si scopre, ma lo si inventa.
Per studiare il lavoro con occhi nuovi occorre avere perciò chiaro il significato delle frontiere e delle conseguenze che questo modo di pensare provoca nella vita degli uomini. Le frontiere, come si è detto, sono fondamenti mentali importanti per la soggettività sia individuale che collettiva.
Una concezione costruttivista del lavoro passa attraverso l’analisi del concetto di frontiera. Cioè, usare la frontiera per costruire un lavoro non casuale. E usare il lavoro per costruire frontiere non casuali che producano benessere.
