Intervista a Pietro Redondi, Ordinario di Storia della Scienza – Università di Milano-Bicocca di Monica Onore
Ci siamo presi del tempo per conversare sul tempo. Era una bella giornata e l’intervista si è svolta sul prato dell’Università Bicocca di Milano.
Che cos’è il tempo?
Il tempo direi è una delle più grandi invenzioni dell’uomo. Il tempo è un concetto e una misura. Un concetto di tipo sociale, scientifico.
Come dimensione della fisica una nozione che è diventata fondamentale nella scienza moderna.
Come concetto sociale è invece un simbolo di catene di relazioni tra loro coordinate e che risalgono ai bisogni primari di una società arcaica, che vive di agricoltura e di caccia e che deve avere nelle stagioni e nei fenomeni astronomici dei punti di riferimento per sopravvivere.La delega a sciamani e stregoni del controllo e la predizione di questi fenomeni permettono alle attività economiche e sociali di svolgersi.
Il tempo come un’ entità astratta esterna alla società e all’uomo in effetti non esiste.
Esiste intellettualmente, fa parte dei prodotti del cervello che elaborano delle percezioni soggettive e collettive.
E’ una proiezione ideale delle nostre percezioni di trasformazione, del fatto che la nostra vita si svolge in un ambiente che cambia continuamente e ci obbliga ad adattarci.
Dopo dio è sicuramente una delle più belle invenzioni dell’uomo. Anche il tempo ha una grande assoluta astrattezza.
E’ uno dei modi di pensare il cambiamento, in chiave metrica, come dice Aristotele. E’ un movimento secondo il prima e il poi, un movimento che è cambiamento e trasformazione.
Il tempo è un concetto che ci serve per capire come siamo fatti.
Noi che diventiamo sempre più vecchi, che diventiamo deboli, che abbiamo un inizio ed una fine dalla nostra esistenza.
Il tempo ci serve per regolare i nostri comportamenti collettivi, per dare un senso alla storia. Il tempo è un simbolo sintetico per esprimere bisogni e organizzazioni della vita associata.
I tempi più interessanti…
Si può usare il tempo come un rilevatore della storia culturale e sociale dell’umanità e delle diverse civilizzazioni che l’hanno scandita.
Nella nostra civiltà il momento cruciale credo sia stato quando il tempo è diventato il protagonista della storia con la rivelazione monoteista giudaico cristiana, che fa del tempo un entità di tipo lineare, un tempo che si volge tra un prima e un dopo.
Non è un cerchio di eventi che si ripetono come tutte le culture di tipo politeista o naturalista, dove gli uomini vedono intorno a sé fenomeni che si ripetono continuamente, dallo scorrere delle stagioni, ai fenomeni ciclici come le fasi lunari e i moti della sfera dello zodiaco di tutta la volta celeste.
Tutta la natura parla spontaneamente alle civiltà arcaiche di circolarità, di perennità, di un tempo che si ripete su se stesso e di un universo dove il tempo è un eterno ripetersi delle cose.
Solo con la rivelazione cristiana o con la promessa della religione ebraica di un messia, il tempo prende la dimensione di una freccia orientata di tipo escatologico, verso un avvenire che destina fuori dalla natura il vero significato dell’essere.
Si fonda il luogo del riscatto da un peccato originale.
Questo è quello che caratterizza il nostro destino di uomini occidentali, vivere il tempo come una linea, che ha un omega, un alfa, un prima e un dopo.
La scienza moderna ha contribuito ad un altro passaggio fondamentale della nostra civiltà, ha fatto suo e secolarizzato, in una chiave puramente matematica, la nozione religiosa metafisica del tempo lineare cristiano.
Da Galileo in poi, con lo sforzo di capire la trama matematica dei fenomeni naturali, il tempo è diventato un vero e proprio ente geometrico con delle proprietà di uniformità e di costanza costituito da punti, atomi di tempo tutti uguali e infinitamente divisibili.
L’orologio, piccolo modello a scala terrestre dell’universo,è un’altra metafora cristiana, si suppone che ci sia un disegno intelligente di un artefice dotato di pensiero matematico, o di un bravo architetto capace di costruire una macchina che mette in condizione l’uomo di capire che c’è questo dio.
Come dice Galileo nella dimostrazione delle leggi matematiche, noi siamo come dio anche se a scale infinitamente inferiore dal punto di vista della quantità di scoperte che possiamo fare, ma il rigore e la precisione è identica, la scintilla di divino che c’è in noi è la capacità di dire che due più due fa quattro.
Anche Kant è molto interessante, il tempo è una programmazione dell’esperienza, cioè del nostro modo di pensare l’esperienza che ci circonda, attraverso lo schema del prima e del dopo. Noi non possiamo vedere nulla se non siamo in grado di disporla secondo un concetto di successione, questa idea è stata poi contestata da Piaget, ma era un tentativo interessante per riuscire a sottrarsi al tempo assoluto di Newton.
Non solo i filosofi hanno parlato di tempo, anche i fondatori della termodinamica, con la nozione di degradazione progressiva dell’energia, riabilitano tutta l’idea di morte dell’universo.
Oltre al tempo cristiano, al tempo assoluto, uniforme, matematico che esiste in sé fuori da tutti i fenomeni in cui l’universo è immerso di Newton e della meccanica classica, c’è il tempo psicologico che ha varato Sant Agostino.
Il tempo della responsabilità, dell’autocoscienza di essere parte di una storia che ha un inizio, un passato e che ha un’aspettativa e un progetto per il futuro.
Una storia autobiografica, individuale ma anche una storia di una civiltà e di una cultura
Agostino la chiamava una distensione dell’anima, ovvero la capacità soggettiva di far rivivere la successione degli avvenimenti passati, futuri e presenti attraverso il richiamo della coscienza.
Questa è un’idea che solo una filosofia di tipo cristiano così incentrata sulla persona poteva elaborare.
Dove la coscienza e l’attenzione all’essere devono convivere con la tensione per lo sviluppo della civiltà. Il destino degli uomini è farsi carico della responsabilità e del libero arbitrio.
La società sembra voler contrarre il tempo
Alla moltiplicazione di catene di dipendenze sociali, che regolano la nostra giornata, ha fatto seguito la perdita di una visione naturale del tempo biologico e fisiologico. Non mangiamo più perché abbiamo fame, ma perché ce lo dice l’orologio.
Non andiamo a dormire perché abbiamo sonno, ma perché c’è una sveglia da puntare, o un orologio che ci avvisa che è tardi.
Il tempo è diventato il nostro controllore etico, la temperanza, di cui l’orologio era un simbolo, era una virtù cristiana.
Il tempo è denaro è stata una virtù borghese, radicata nel bisogno di far fruttare la nostra vita, minuto per minuto, per riscattarci da questa colpa che sempre ci accompagna.
Credo che oggi, il tempo sia molto parcellizzato. Lo simboleggiano gli orologi a quadrante digitale dove si è perso anche l’ultimo segno della circolarità, del ruotare degli astri.
Le sfere degli orologi a quadrante analogico in fondo ci danno il senso di qualcosa che ritorna, ogni alba con il sorgere del sole, mentre l’orologio a quadrante digitale con la sua puntuale istantaneità, senza un prima e senza un dopo ci abbandona veramente ad una rincorsa disperata, che mi ricorda il paradosso di Achille e la Tartaruga.
La Tartaruga con la sua andatura lenta e costante, passo dopo passo non si farà mai superare dal veloce Achille.
Così anche noi, con tutta la nostra velocità, non riusciamo ad andare al di là di questa atomizzazione istantanea che ci fa continuamente perdere tempo.
Alla fine non siamo più padroni nemmeno del nostro tempo.
La differenze secondo lei di tempo libero e di tempo del lavoro
Direi che il tempo libero è il tempo personale e soggettivo, costitutivo della nostra personalità, quale essa sia. Mi preoccupa il fatto che il tempo libero sia anch’esso estremamente collettivo, scandito e popolato di rincorse… per evitare le code ai caselli autostradali.
Forse oggi il tempo libero ci impegna ancor di più del tempo di lavoro, dove paradossalmente è più facile prendersi, con piccoli stratagemmi da vita di ufficio, delle pause deliziose.
Vedo il tempo libero molto industrializzato, non ci sono i cancelli d’ingresso con i cartellini però ci sono quei ticket autostradali che mi ricordano qualcosa di molto simile.
Il tempo libero dovrebbe essere,come il lavoro, in un’idea molto utopistica, un modo di tutelarci dallo sfruttamento gli uni dagli altri, ma anche qualcosa in grado di costruire una nostra felicità.
Non posso parlare di un tempo di lavoro perché mi sento un privilegiato, non mi sono mai sentito condizionato ne da padroni, ne da organizzazioni di lavoro.
Ho sempre fatto dei lavori molto liberi. Sono da sempre un ricercatore. Le notti bianche di lavoro sono ancora adesso degli spazi di libertà, non guardo l’orologio. Il tempo di lavoro è la parte in cui più mi riesco ad esprimere maggiormente. La relazione costante con gli studenti mi da moltissimo.
Quando entro in università mi si apre il cuore, forse i vuoti li sento nei week end tra un lavoro ed un altro.
Capisco che il tempo dell’orologio è un meccanismo sociale molto utile che ci struttura, che ci obbliga ad adattarci agli altri. E’ un invenzione universale pacificamente adottata, credo sia la più condivisa da tutti i paesi del mondo.
Solo che è un artificio che spesso si scontra con le nostre necessità, bisogni, esigenze psicologiche, individuali e lavorative.
Anche nel mio lavoro ci sono onde, fasi di grande intensità produttiva e fasi di stagnazione. Come stagioni, della propria esperienza personale, intense, vibranti come una corda e poi invece vuote.
Avere tempo per studiare, investire nella propria formazione significa avere tempo e dello spazio che crea anche visibilità e senso del proprio esistere?
Bisognerebbe poter seguire le proprie aspettative sentendosi liberi di orientarsi e di scegliere.
Non bisogna guardare all’università come qualcosa fuori dalla società.
Però qualcosa è cambiato profondamente. Prima il mondo del lavoro premeva per impiegare i nuovi laureati, c’era la crescita economica. Oggi sembra che ci sia uno sviluppo al rallentatore.
Certo, ci sono sempre persone che primeggiano in una gara con se stessi e gli altri, ma non mi sembrano più la maggioranza.
L’università viene vissuta come una pausa di crescita, perché gli studenti sanno che nessuno gli attende alla fine dei loro studi per lavorare.
Vivono l’università come una stagione di maturazione, come un’uscita dall’adolescenza.
Li trovo molto maturi,infatti, fin troppo ponderati e moderati nei loro giudizi, non so se sono in grado o hanno voglia di arrabbiarsi,indignarsi.
Il rapporto è inversamente proporzionale tra tempo e spazio, possiamo usufruire dell’insegnamento universitario a distanza, non siamo più costretti a spostarci e possiamo usufruire della cultura dalla nostra propria stanza.
Non so giudicare questo fenomeno, ma mi interrogo…
Prima avere 20 anni significava avere uno spazio vitale fatto di bar, piazze, strade,spiagge.
Oggi si può avere tutto questo a distanza, con un minore movimento, molto più comodo ma che forse rischia di eliminare le occasioni inaspettate.
E forse sono proprio gli aspetti del movimento che causano le occasioni, e le occasioni sono sempre un modo per crescere.
Ha senso dire “non ho tempo”?
Dire “non ho tempo” effettivamente è un paradosso, però legittimo. Corrisponde ad una percezione psicologica di insufficienza rispetto a richieste molteplici, dei tanti orologi che dobbiamo rispettare.
L’unica cosa che davvero non manca è il tempo, perché siamo noi il tempo.
Il tempo è la nostra crescita, finché c’è vita il tempo è interminabile, più passa, più è pieno, più ce n’è.
Cosa pensa del concetto di tempo nella filosofia orientale?
Anche nel concetto della reincarnazione c’è un evolversi, un eterno ritorno della natura e del suo tempo.
Per quanto riguarda il senso del tempo presente di alcune filosofie mi viene in mente che Pascal faceva dire al libertino “Questo universo infinito mi sgomenta” …per me uomo occidentale, il tempo ridotto alla dimensione dell’essere nel presente sgomenterebbe.
Mi priverebbe del senso di esistere, in quanto sono nato in una civiltà in cui il senso e il significato delle cose consistono nell’appartenenza ad un disegno o soprannaturale o sociale e progressista, ma in cui c’è un esito e un punto di partenza e uno scopo più o meno vagheggiato o utopistico da raggiungere, la felicità che non è data nel presente. Questo è il nostro limite, forse rispetto alle culture orientali, che sanno meglio scavare nell’interiorità il valore dell’attimo.
Noi invece dobbiamo investire fuori da noi, attendere la promessa di un compimento.
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