A chi non è capitato di provare una certa emozione ma non essere in grado di riuscire a spiegarla perché nessuna parola in italiano vi sembra non rappresentare ciò che state sentendo.
Tiffany Watt Smith ha cercato di risolvere il problema proponendo un manuale dove sono descritte 156 emozioni grazie all’unione di diverse lingue. La copertina del libro, molto suggestiva, recita:
Le emozioni che non hai provato,
che non sai di aver provato,
che non proverai mai.
Il libro è in ordine alfabetico e propone una descrizione dettagliata per ogni emozione, spiegando la sua origine e quali sono le sensazioni che si provano.
Ecco alcuni esempi tratti dal libro:
Awumbuk
C’è un senso di vuoto che rimane dopo la partenza di un ospite. I rumori echeggiano tra le mura di casa. Lo spazio che sembrava tanto ridotto mentre lui o lei era ancora qui adesso sembra stranamente ampio. E anche se spesso proviamo un certo sollievo, ci può anche restare addosso una sensazione attutita – come se su di noi fosse calata una nebbia e ogni cosa ci sembrasse priva di senso (si veda alla voce: apatia).
La tribù Baining che vive nelle montagne della Papua Nuova Guinea ha una tale familiarità con questa esperienza da averle dato un nome: awumbuk. I Baining credono che i visitatori si lasciano dietro una sorta di pesantezza quando partono, in modo da viaggiare leggeri. Questa foschia opprimente aleggia per tre giorni, creando un senso di distrazione e di inerzia e interferendo con la capacità della famiglia di badare alla casa e ai campi. Così, dopo che i loro ospiti se ne sono andati, i Baining riempiono una ciotola d’acqua e la lasciano in casa per una notte perché assorba l’aria infettata. La mattina seguente, la famiglia si alza molto presto e va a gettare l’acqua tra gli alberi. A quel punto la vita può ricominciare in tutta normalità.
Iktsuarpok
Quando stiamo per ricevere una visita può farsi largo in noi una sensazione di irrequietezza. Magari continuiamo a rivolgere lo sguardo alla finestra. Oppure ci fermiamo a metà di una frase, credendo di aver sentito un’automobile. Presso gli inuit questo senso di attesa trepidante, che li porta a scrutare le distese di ghiaccio per vedere se ci sono slitte in avvicinamento, viene chiamato iktsuarpok (si pronuncia it-so-ar-pok). Può essere un tipo di iktsuarpok la maniera ossessiva che abbiamo di controllare il nostro telefono mentre stiamo aspettando di ricevere una risposta a un messaggio o un commento al nostro ultimo status su Facebook?
Continuare a ricaricare la pagina per vedere se è arrivata una mail tanto attesa può sembrare una delle maggiori distrazioni della vita contemporanea. Ma forse la colpa non va data alla tecnologia, quanto al nostro desiderio di stabilire un contatto umano in un mondo che tende a isolarci.
Insultato, sentirsi
«Ascoltami bene… Lui non sa colpire… è lento, è impacciato, non ha gioco di gambe. Ha due possibilità, minima e zero.»
Muhammad Alì intervistato da David Frost, 1974
Dobbiamo ringraziare Muhammad Alì se parlare male degli altri è diventato una parte così importante dell’arte della boxe. I suoi insulti pirotecnici rivolti all’allora campione mondiale di pesi massimi George Foreman – prima di arrivare al loro match nello Zaire – sono diventati leggendari.
Oggi i pugili cominciano a insultarsi via social media mesi prima di un incontro. Più spiritose sono le loro battute, meglio è. Il fatto che loro la considerino una maniera efficiente di sabotare l’avversario la dice lunga su cosa si prova davvero a essere insultati.
Prima di tutto, è uno shock: un’improvvisa e sconcertante perdita di status. Un attimo siete lì che vi sentite rispettati, l’attimo dopo – bam! – siete oggetto di scherno e disprezzo. Quelli che fanno più male sono gli insulti che arrivano all’improvviso, o senza ragione, e ci lasciano agitati e confusi. Ma non è solo per questo che i pugili si insultano. Vogliono fare innervosire l’avversario, ma vogliono, soprattutto, renderlo furioso, accecato dalla rabbia, finché lui si mette a tirare cazzotti senza fermarsi, e così facendo, presto, si stanca. La boxe può sembrare uno sport basato sulla rabbia e sull’aggressività. Ma, come sanno bene i pugili, il primo che perde la testa al suono della campana, travolto dalla collera e dall’umiliazione, è quello che finisce per perdere.
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