Qui, a San Siro, il mio quartiere, abita la diffidenza e sembra di vivere a Casablanca
Francesca Bertani ne discorre con Giorgio Zaffaroni
Io ho sempre vissuto in via Zamagna 4. Era casa dei miei genitori, sono rimasto lì fino a quasi 50 anni, poi mi sono trasferito per vent’anni vicino a Centrale, ma ero sempre in zona San Siro. Ho vissuto tutta la mia vita in questo quartiere. ’’
Qual è il cambiamento maggiore che ha visto nel quartiere?
Ho notato una cosa per quanto riguarda i quartieri periferici. Per me c’è una distinzione netta tra case private e case pubbliche. Nelle case private si deve parlare probabilmente di integrazione, mentre nelle case pubbliche la mia impressione è che ci sia una completa trasformazione.
In che senso?
Quando arrivano persone dall’estero, evidentemente non possono andare ad abitare in case con affitti a 600-800 euro, e quindi giustamente vengono tutte messe nelle case pubbliche con affitti a basso costo, quindi ormai su 80-90 famiglie che rappresentano il palazzo, adesso siamo all’80% di stranieri. Mentre in una casa privata forse lei trova ancora la classica integrazione di due o tre persone che tentano di integrarsi in un gruppo di quindici-venti, nelle case pubbliche non è che siano gli italiani che devono integrarsi, ma c’è proprio una trasformazione. In questa zona di San Siro, la maggioranza sono egiziani. Io ho l’impressione che qui, nell’arco di quindici-vent’anni, sarà una sorta di circolo chiuso, come a Little Italy.
Intende dire che il quartiere si trasformerà in un ghetto?
No, no, non un ghetto. Proprio una trasformazione completa, nel senso che una zona di San Siro sarà una zona abitata prevalentemente da egiziani, che poi si dovranno integrare, ma un’integrazione tra zone periferiche e non. Fuori dalle case pubbliche, l’integrazione è minima. Mentre qui c’è una trasformazione. Poi giusto o sbagliato, questo è un altro discorso.
Lei cosa pensa della convivenza tra stranieri e italiani?
È ancora molto difficile, anzi direi difficilissima. Forse per diffidenze da ambo le parti. Io noto una cosa. Sono poche le persone non italiane che entrano qui (Trattoria alle 2 Isole) a prendere la pizza. Evidentemente c’è una certa diffidenza, preferiscono andare a mangiare in altri locali. Da parte loro la diffidenza è perché si trovano in una nazione che non è la loro, hanno una propria cultura. Non è che siano più cattivi loro o che siamo più cattivi noi, più bravi loro o noi. Sono cose così. A volte – mi è capitato nel mondo del lavoro- magari con una persona inizialmente ci si guarda male, poi quando ci si conosce tutto cambia, magari con quella persona si diventa amici. Ma l’integrazione è ancora molto lontana. Basti pensare alla scuola di via Paravia, che adesso è una scuola quasi adibita ad arabi, egiziani… gli italiani non so se possono ancora iscrivere i ragazzi lì.
Sì, possono…
Però non ci vanno. Classico discorso.
Non ci si incontra neanche al bar?
In via Zamagna c’è un bar dove sembra di essere a Casablanca. Di italiani lì ce ne sarà uno su venti, ci sono musiche orientali, africane, asiatiche… Io sono cresciuto nei bar della zona, stanno cambiando tutti. Una volta qui c’era la parrocchia di Onorata che era un grande punto di ritrovo, chiuso da anni per una serie di problemi. Poi una volta i bar stavano aperti anche fino a sera, adesso qui c’è la paura di tutto. Io no, ma in giro c’è paura.
Cosa dice la gente?
La gente ha questo senso di timore perché tutte queste persone che arrivano dovrebbero avere tutte un lavoro, ma se non ce l’hanno, è lì il problema. Non è per parlare male, ma è la realtà. Se io non ho da mangiare, non ho una lira in tasca, non ho niente, mi trovo qui e finisce che vado a delinquere. É normale, è una cosa gioco forza. Ogni tanto c’è una camionetta (della polizia) che gira, ma non è sufficiente, ci vorrebbe ben altro. Un mio amico ha dovuto mettere le sbarre al piano rialzato perché ha avuto due tentativi di intrusione. Ci sono stati un paio di casi di donne anziane rapinate per strada. Queste cose generano un certo timore. Il problema della sicurezza è fondamentale. Poi molti sono in case abusive, nessuno che paga l’affitto, qui è un disastro. Ogni tanto fanno degli sgombri, ma non servono a niente. Quando hai sgomberato 10 appartamenti ma ce ne sono occupati 1500, a cosa serve. Ci sono problemi di soldi, di regioni, di province, ammesso che ci siano ancora. Quando ho 15000 persone e 3000 case, 12.000 restano fuori, ammesso che tutti abbiano diritto alle case popolari.
Secondo lei cosa si potrebbe fare per favorire l’integrazione?
L’integrazione è un problema culturale, credo che ci voglia tanto tempo e buona volontà. L’integrazione avviene con i ragazzi che crescono qui, con le scuole che crescono qui. Lì ci sarà la vera integrazione, il traguardo, ma adesso io vedo ancora un distacco netto. Perché se lei nota il ragazzino italiano e il ragazzino di colore sono amici, mentre l’adulto italiano e l’adulto straniero possono essere amici, ma per la maggior parte stanno ognuno per i fatti propri. Io noto ancora questa diffidenza, che è un muro che si può buttar giù, ma ci vuole tempo. L’integrazione è avere il buon senso di creare nei giovani questo discorso. Non vuol dire che nel frattempo devo aspettare con le mani in tasca, devo sempre cercare di migliorare le cose, ma non la vedo una cosa imminente. Integrare culture diverse è difficile.
Secondo lei, quali sono gli aspetti culturali su cui è più difficile trovare un punto d’incontro?
La religione in primo conto, e poi le loro abitudini di vita che io onestamente non conosco. Il loro modo di vivere in comune è completamente diverso dal nostro. Ma questo senza dire che è meglio il nostro o è meglio il loro.
C’è qualcosa che vorrebbe chiedere agli stranieri che vivono nel quartiere? Magari qualcosa che vorrebbe capire meglio della loro cultura?
Al momento non saprei. Io credo che dovrebbero essere loro a cercare di dire, di capire. Loro – dico loro non in senso cattivo – dovrebbero capire qual è la motivazione di integrarsi, perché se glielo racconti tu non vale il ragionamento. Devono essere loro ad aprire il dialogo, perché solo così se dai un consiglio ti ascoltano. Ci deve essere qualcuno che li rappresenta che venga avanti a chiedere le cose.
Un buon inizio, potrebbe essere potenziare l’insegnamento della nostra lingua…
Certamente. Ad esempio qui in Via Monreale c’è una scuola dove insegnano l’italiano agli stranieri. Cercavano anche qualcuno che potesse dare lezioni di cucina ai ragazzi un paio d’ore alla settimana. Mi sembra un’ottima cosa.