DANTE ALL’ARSENALE DI VENEZIA. ISTRUZIONI PER L’USO (CELEBRANDONE I SETTECENTO ANNI DALLA MORTE).

Fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.

(Inf, XXVI, v. 119-120)

Dante Alighieri è nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321. Sono trascorsi settecento anni dalla sua morte: una ricorrenza che è giusto vivere ricordandone attivamente l’insegnamento. Nel nostro piccolo lo facciamo assumendolo come modello di uno speciale vivere ciò che si è (o ciò che sarebbe giusto essere). Educare prima di tutto se stessi, avendo come paradigma operativo l’impegno civile, la conoscenza e il sapere, la capacità di osservare il proprio e l’altrui mondo, la predisposizione all’essere curiosi e l’attitudine a decodificare i segnali deboli per poterli in seguito interpretare costruttivamente. Non dimenticando la padronanza linguistica, cioè il linguaggio, sofisticato sistema umano di segnalazione.

Un po’ per gioco, la nostra riflessione ci porta a ricordare quando Dante ebbe modo di vedere l’Arsenale di Venezia, fra il 1304 e il 1306. Una realtà attentamente osservata, divenuta il fulcro della bolgia dei barattieri, colpevoli di aver usato le proprie cariche pubbliche per arricchirsi attraverso la compravendita di permessi, provvedimenti, privilegi (non balzano alla mente figure e persone vivissime ai nostri giorni…? Tangentisti, potremmo dire). Sono immersi nella pece bollente, guardati a vista da diavoli armati di uncini. La pece, spessa, vischiosa, tenace e ardente, è quasi certo che Dante l’abbia ben vista all’Arsenale, dove grandi caldaie di pece bollivano giorno e notte. E l’instancabile affaccendarsi di operai e manovali al lavoro si riflette nel muoversi tumultuoso dei diavoli e dei dannati (Inf. XXI e XXII). Anche in altre parti della Commedia si incontrano linguaggi diversi e venezianismi marinari.

Scrive Ignazio Baldelli (lo annotiamo solo per inciso): «lavoratori dell’Arsenale erano pagati e trattati come operai specializzati a cui molto si chiedeva ma a cui erano concessi privilegi per allora del tutto inauditi; ad esempio, era garantita, a spese dell’Arsenale, la sopravvivenza della famiglia in caso di morte del lavoratore. Nei periodi di stasi del lavoro cantieristico si cercava di impegnare la manodopera in attività secondarie, per evitarne l’emigrazione». Sempre per inciso, e sorridendo: pare che a Venezia, nel Trecento, il ragionare intorno alla politica industriale così come veniva messa in atto all’Arsenale fosse molto più avanzato rispetto ai punti di vista il più delle volte espressi dalla Confindustria dei giorni d’oggi…

L’impresa dell’Arsenale operò per una decina di secoli e fu una realtà decisiva nella storia dell’Italia, del Mediterraneo e della civiltà occidentale. Una realtà che Dante conobbe senz’altro e alla quale si ispirò nella stesura di molti passaggi della Commedia.

Ecco allora il punto: proviamo a immaginare le scuole di ogni ordine e grado come moderni Arsenali dove si avvicendano sguardi, pensieri, emozioni. E dove il sapere dovrebbe assumere i connotati di un qualcosa di assolutamente piacevole. Il che, in genere, non avviene: i programmi ministeriali, le burocrazie, i questionari più svariati (Invalsi compreso), l’interrogare per punire l’errore, giocano a favore di un progetto, più o meno consapevole «per fare del nostro paese, un paese di non pensanti» (Riccardo Muti).

Chiunque, quindi, sia impegnato professionalmente, o per scelta volontariale, nell’articolare relazioni di aiuto, dovrebbe ispirarsi al Dante dell’Arsenale, magari ricordando la lezione di William Osler, padre della medicina clinica moderna (1849-1919: «Osservate, memorizzate, collocate al posto giusto, comunicate. Usate i vostri cinque sensi…Imparate a vedere, imparate a udire, imparate a toccare, imparate a odorare e sappiate che soltanto con la pratica potrete diventare esperti. La medicina si impara al letto del malato e non in un’aula. Non lasciate che le vostre concezioni delle malattie vengano da parole udite in classe o lette in un libro. Guardate e poi ragionate e mettete a confronto. Ma per prima cosa, guardate». E dopo aver “guardato”, descrivere ciò che si è creduto di vedere (l’osservatore fa sempre parte del fenomeno osservato…), secondo il suggerimento di Sigmund Freud: «Un fenomeno, prima di essere spiegato, deve necessariamente essere descritto».

L’Arsenale della vita vissuta da ciascuno di noi e dai nostri più giovani compagni di viaggio, andrebbe guardato con sguardo attento e dantesco. Con affettuosa curiosità.

Riferimenti bibliografici:

Ignazio Baldelli, Letteratura e industria. Un caso esemplare, anzi apodittico: l’Arsenale di Venezia e la Commedia, In: Letteratura e Industria, I, dal Medioevo al Primo Novecento, Firenze, Olschki, 1997

Pietro Dri, Serendippo. Come nasce una scoperta: la fortuna nella scienza, Roma, Editori Riuniti, 1994

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