PENSIERI PRIGIONIERI (CULTURA TRA LE SBARRE). Voci, corpi e sguardi sul palcoscenico del carcere

DOMANDA E RISPOSTA
– C’è più libertà
in carcere o in città ?
– Non ce n’è, libertà.
È carcere l’intera città.
Giorgio Caproni

Vi sono esperienze che non possono essere raccontate senza ridurne e circoscriverne dimensione, spessore e “forza” emotiva. Una sorta di vissuto personale che, proprio in quanto vissuto, non solo non può essere messo in discussione ma non può nemmeno essere trasmesso e comunicato senza alterarne le potenzialità euristiche. E tuttavia vale la pena tentare.
Come spesso capita, è stato un “caso amico” che – da tempo – mi offre l’opportunità di respirare parole e sguardi di chi sta vivendo l’esperienza carceraria. Attori che, loro malgrado, interpretano ruoli diversi: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, operatori, volontari. Regista inflessibile: la Legge, nota e conosciuta per il suo essere umorale e per nulla “uguale per tutti”.

Spazi di incontro
NESSUNO
Nessuno mi si siede davanti.
Nessuno mi chiede: qual è il problema ?
Vediamo se posso darti una mano.
Allora io direi tutto ciò che di positivo
e di negativo sento dentro di me.
Come in una canzone.
K., detenuto ventenne

Il luogo e gli spazi di incontro, innanzitutto. Corridoi, porte di ferro aperte e richiuse con grandi chiavi dorate, scalini, Agenti che buttano l’occhio vigile sul pass che ciondola dal collo. E poi “loro” che, alla rinfusa, arrivano nella piccola cella modificata in aula: chi sta in piedi, chi si siede, chi si accovaccia sul tavolo. Il carcere come incontro di culture, crocicchio di intelligenze e di emozioni: italiani, rumeni, zingari, marocchini, egiziani. E ognuno snocciola ragionamenti e pensieri che si articolano con una meditata vivacità, il più delle volte sconosciuta alle persone “libere”. La ragione è forse semplice: proprio in quanto i corpi sono prigionieri (le regole impongono precisi movimenti preordinati: l’ora d’aria, la doccia, il pasto, la terapia, la cella), non resta altro – per sopravvivere – che aggrapparsi a quell’entità rarefatta cui vien dato il nome di “pensiero”. Attrezzo, allora, con il quale si rilegge la vita, o meglio: quelle circostanze della vita che hanno determinato la condizione attuale.
Si passano un paio d’ore insieme e, a chi viene dall’esterno (vi è un ben definito territorio del fuori e un altrettanto preciso territorio del dentro, dove il confine si trasforma in frontiera…) viene stretta la mano. Sempre. E in quell’atto si esprime una chiara richiesta : “Fai che io possa fidarmi di te”. Lo sguardo che accompagna il saluto garantisce una sorta di reciprocità che abbia nella principale regola del rispetto il proprio cardine valoriale (“Anch’io farò in modo che tu ti possa fidare di me”).

INTERROGATIVO
Se non sono ladrone
o omicida, forse
è soltanto perché
non ne ho avuto occasione ?
Giorgio Caproni

Al gran ballo del pregiudizio

Il passato assume le forme del presente e il presente quelle del futuro. Il problema tuttavia è: quale futuro? Al gran ballo del pregiudizio – infatti – la musica, silenziosamente assordante, non consente il benché minimo movimento. Scardinare i pregiudizi diventa allora il compito prioritario: la condanna che ruba il mio tempo (giusta o ingiusta che sia) non deve proiettarsi oltre il fine pena. Si impone quindi una revisione radicale di tutto ciò che è accaduto, un accaduto che deve assumere la coloritura soggettiva di un’esperienza maturativa e illuminante. L’aver “imparato che…” rinvia a forme di apprendimento non più lineari (collana di inutili ragionamenti), bensì circolari. Dove la regia viene assunta dal vibrare emotivo. Si fatica ad addormentarsi ed ecco, per esempio, che il pensare a mio figlio che non vedo da quattro anni e che forse non rivedrò più, invita il sonno a farmi un’amichevole visita. Malinconia e tristezza sono ospiti che non posso respingere ma in ogni caso devo far sì che ne scaturiscano nuove energie: carburante affettivo per un “andare oltre”, dove la qualità della vita sia un po’ migliore di quanto è stata finora.
Un vibrare emotivo che si faccia carico anche di ciò che hanno provato le vittime della nostra azione. Persone che abbiamo ferito proprio in quanto, nell’esatto momento del nostro agire, non ci siamo posti il problema della ricaduta (fisicamente emotiva, potremmo dire) che la nostra “intrusione” non poteva non avere: il furto, per esempio, è prima di tutto, un rovistare tra le cose intime, il cui valore è sempre superiore al prezzo stabilito dal mercato.
E poi, laicamente, occorre non dimenticare il pregiudizio che esprime il mondo delle brave persone che vivono al di là delle alte mura di cinta. “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”, dice Virgilio al povero e spaurito Dante. Ecco: immaginare (inventarsi) un proprio, personale Virgilio che ci sia compagno e guida in un mondo al cui confronto, spesso, le bolge infernali assumono tratti amichevoli. E che ci suggerisca le azioni più opportune. In fondo, un tale Virgilio non è altri che noi stessi.

Pensiero e linguaggio

Linguaggio e parole sono la forma più potente del pensare umano. E non amano, le parole, essere vendute, lette, imbalsamate, ibernate (come scrive Eugenio Montale). Preferiscono, in questo caso, un magico sonno eterno. Belle addormentate nel bosco della vita che possono però essere risvegliate dal principe azzurro. Basterebbe volerlo e ciascuno di noi potrebbe assumerne il ruolo. Come il detenuto A. che, intervenendo, esclama: “Parla pulito, giovane!”, inconsapevole del fatto che il premio Nobel per la Letteratura Eugenio Montale, per questo, l’avrebbe abbracciato.
Le parole, si diceva, e la poesia che – animandosi – saluta e abbraccia a sua volta i presenti nella piccola cella.

Il curriculum

Sarebbe forse meglio se si desse più spesso la parola ai poeti piuttosto che a giuristi, magistrati e tecnici di ogni estrazione.

Come nel nostro caso, dove il problema è semplice: una volta (e finalmente) “liberi” occorre cercare un lavoro. Ma chi, leggendo il curriculum e notando che alcuni anni sono stati passati “in galera” (una sorta di buco oscuro), si prenderebbe la responsabilità di un’assunzione ? Ecco l’animarsi di un pur giustificabile “pregiudizio”.
Nella piccola stanza si affaccia un altro premio Nobel per la Letteratura: Wislawa Szymborska. Distribuisce una delle sue poesie che si intitola, appunto, “Scrivere il curriculum”. Critica durissima all’obbligo di imprigionare la vita nel rigido schema del “Curriculum in versione europea”. Se ne discute e ci si accorge che in questa griglia le parole, in effetti, perdono senso e significato.
Scrive l’Autrice: “ […] Meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto. / Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano. / Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. / È la sua forma che conta, non ciò che sente. / Cosa si sente ? / Il fragore delle macchine che tritano la carta”.
Il suggerimento viene colto al volo, proprio perché il poeta “parla pulito”. Bisogna allora dire del nostro valore; raccontare in che cosa consistano i nostri contenuti. Far sì che non ci scambino per ciò che non siamo. E ancora ascoltare il fracasso delle carte bollate ma non esserne travolti.
In sostanza: far sgattaiolare le parole fuori dalla gattabuia del modulo prestampato. Una specie di evasione dal carcere di un’obbligata stereotipia. Una volta in libertà, queste medesime parole aiuteranno corpi e menti a superare la frontiera delle ovvietà indotte e imposte.

L’autoritratto

Ma come riuscire a far tutto questo? Occorre “far scattare” un nuovo modo di pensare e di pensarsi. E lo “scatto fotografico” può, al riguardo, essere d’aiuto. Guardare ciò che è stato e ciò che è il nostro essere nel mondo: cercare di (ri)vederlo con gli occhi socchiusi. Per non essere ancora una volta feriti dalle schegge di un panorama già visto nella sua coloritura stereotipata: io avrei potuto e soprattutto potrei essere altro da ciò che ho scelto finora di essere.
Con l’aiuto di un tecnico-poeta (il fotografo professionista è a suo modo un poeta dell’immagine) possiamo tratteggiare, quasi “dipingere”, ciò che eravamo, ciò che siamo e ciò che immaginiamo e speriamo di essere in futuro. Una sorta di ieri, oggi, domani , dimensioni temporali dove i rispettivi stati d’animo vengono ad assumere i tratti di una fonte cui ci siamo abbeverati e magari, in qualche momento, persino intossicati. Ma anche sorgente cui abbeverarsi in un tempo futuro, che si spera (basta volerlo) abbia connotati di una maggiore e produttiva serenità.

Immagini e immaginario

La collezione di “punti di vista” evoca immaginari, sceneggiature e scenografie tali da permettere l’originarsi del sogno e allora, considerando che alla base di ogni motivazione umana vi è sempre e necessariamente proprio un sogno, ecco che dall’osservare e produrre “immagini” (di se stessi e degli ambienti in cui a volte abbiamo l’impressione di trascinare la nostra vita) nascono nuove possibilità e nuovi e diversi impianti motivazionali.
Roberto Piumini suggerisce come predisporsi a scrivere le sceneggiature del nostro vivere (passato, presente e futuro): toccandosi “la fronte e i capelli con le mani fresche di nuvole”. Così, il tempo attuale potrà trasformarsi in un “cesto di rugiada” (G. Ungaretti) con cui riprendere il cammino, una volta scontata la pena, come si suol dire.

LA LANTERNA
Non porterà nemmeno
la lanterna. Là
il buio è così buio
che non c’è oscurità.
Giorgio Caproni

Lo Spirito Folletto

 

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