LUISA BISELLO, SOTTO IL MANTO DEL SILENZIO, FIRENZE, LEO. S. OLSCHKI Parole e suoni nella vita associativa

Ascoltare un’Associazione (per di più, se di volontariato) è come ascoltare il mondo, in quanto Il mondo è una sorta di grande Associazione. O viceversa. In ogni caso, potremmo metterla così: nei laboratori organizzativi, in provette di media grandezza, si fanno molti di quegli esperimenti che la Storia ha fatto, fa e farà in ampolle di ben altre dimensioni. Come ha annotato M. Kundera a proposito dell’opera di Kafka.
Ma la Storia siamo noi, come dice la canzone. E allora eccoci alle prese con l’ascolto di noi stessi e – appunto – delle Associazioni di cui facciamo parte.
L’esperimento di cui vorremmo riferire riguarda la pratica soggettiva del silenzio come forma di sopravvivenza proprio in quei contesti socio-politico-organizzativi (e associativi) che mal tolleravano e tollerano il pensiero libero e vivo. Il dire ciò che si pensa comporta spesso conseguenze negative. Anche in gran parte delle Organizzazioni e delle Associazioni umane.

La questione non è di oggi: “Sovente mi sono pentito di aver parlato, mai di aver taciuto”, si legge in un adagio del greco Simonide .
Lo studio di Linda Bisello ci racconta di come al riguardo andavano le cose dalle nostre parti nella grande Organizzazione-Mondo, a cavallo tra Cinque e Seicento. Si tratta in particolare di un saggio “sulla teoria e osservanza del silenzio, assunto come riparo in epoca di conflitti dottrinali in prima istanza, in seguito praticato, sotto forma di ‘taciturnità’, quale segno di riserbo nella temperie post-tridentina”.
Starsene al riparo, quindi, quando i conflitti dovessero agitare le acque sociali (e aziendali), rischiando così di nuocerci e far danno. Il non dire come forma di difesa e, in fondo, di prudenza. Di qui l’antica abitudine, consolidata nei secoli, di starsene prudentemente al riparo, “ammantati di silenzio”.
Ma a quale forma di silenzio ci stiamo riferendo? Al concetto di silenzio si giunge, infatti, per vie etimologiche diverse: da un lato la forma latina di silere, dall’altro tacere. Taceo indica l’assenza di parola e sileo l’assenza di suono.
La realtà organizzativa, da questo punto di vista, viene a configurarsi come Laboratorio dove si eseguono esperimenti sull’uso (più o meno efficace) della parola e dove si possono osservare gli sviluppi della diverse forme di silenzio, inclusa la forma del silenzio affettivo, la più nociva in assoluto. In tutto ciò comprendendo la capacità di ascolto delle più diverse forme di “silenzio”, tanto più essenziale in quanto è proprio il non detto che assume, il più delle volte, senso e significato rilevante. Nell’organizzazione-famiglia, come nell’organizzazione-suola o nell’organizzazione UVI, dove la capacità dei volontari di decodificare e interpretare il non detto dai “portatori di fragilità” (bambini, bambine, ragazzi e ragazze) di cui si occupano, è essenziale.

L’assenza di parola.
Un bel tacer non fu mai scritto, dicevano le nostre nonne, incarnando la quintessenza dell’atteggiamento prudenziale. E il tacere significa, in questo caso, rinunciare all’uso della parola. O meglio: rinunciare all’uso di parole che siano significative. In altri termini: per parlare, si parla, forse anche troppo. Ma, a ben vedere, non si tratta tanto di parole significative, quanto piuttosto di soffi convenzionali che spesso hanno solo senso e significato apparente. Lo si fa per starsene al riparo da possibili contromisure che chi detiene il potere potrebbe prendere nei nostri confronti? Forse no, e in questo c’è senz’altro una certa differenza tra il periodo storico analizzato dalla nostra Autrice e il mondo organizzativo di oggi. A cavallo tra il Cinque e il Seicento operava con grande solerzia la Santa Inquisizione e parole che venissero interpretate come eresia o come attacco alla Chiesa Cattolica, avevano come conseguenza la condanna al rogo di colui o colei che le avesse pronunciate. Non c’era molto da stare allegri. E oggi? Nulla di simile, ma…
Nei cortili delle varie Organizzazioni non vengono certo erette cataste di legna per bruciare gli eretici alla Giordano Bruno. I tempi sono cambiati e le strategie espulsive si son fatte più sottili e subdole. Con il Mobbing, tanto per fare un esempio, non possiamo dire che si bruci il “condannato” in senso letterale, ma da un certo punto di vista, si tende ad annullarne la volontà, riducendone la personalità a simulacro carbonizzato. Di colui (o colei) che è stato preso di mira, non rimarrà certo un mucchietto di cenere livida, ma il suo modo di essere nel mondo muterà in ogni caso drammaticamente. Ecco allora che l’uso di parole che non dicano nulla di noi stessi, di ciò che sentiamo e che pensiamo (in sostanza: che non disturbino l’altro), ci pone al riparo da possibili aggressioni che – seppur metaforiche – ridurrebbero di molto il livello qualitativo del nostro vivere lavorativo.
Un atteggiamento di circospetta prudenza può allora giovare: importante è non irritare il Principe che – in questa epoca di democrazia – assume spesso le sembianze di Responsabile ovvero di primo referente gerarchico cui va rivolta la parola. Meno questa parola significa, meglio è per tutti. Una parola che dica, infatti, induce e promuove il cambiamento: ecco un altro motivo per cui l’Organizzazione in genere mal la tollera. Al cambiamento resistono i singoli, i gruppi, le Organizzazioni. E’ questione di specie umana e dato di fatto.
In sintesi: la riflessione che Linda Bisello propone rispetto all’assenza di parola in quanto scelta individuale di sopravvivenza in un’epoca remota, ci ricorda comunque come ancor oggi, nelle Organizzioni, 1) la parola significativa venga trattenuta (non detta) e 2) operino strategie di resistenza al cambiamento.
L’assenza di suono.
L’ assenza di parola rinvia quindi a atteggiamenti orientati a garantirsi una vita sufficientemente pacifica e meno tribolata. E l’assenza di suono? E’ tutt’altra cosa. Il silenzio in quanto numinosa assenza di suono, indica uno stato di quiete generatrice di pensieri e sensazioni in cui il reale si immobilizza per consentirne la piena comprensione. Il concetto si collega addirittura al manifestarsi del divino. L’avvento del Messia è contraddistinto da immoto stupore così come la comunione col Verbo avviene attraverso il silenzio. Questa forma di silenzio diventa allora indispensabile per poter conoscere e conoscersi, sia sul piano razionale che affettivo. In altre parole: il silenzio favorisce l’ascolto.
Ma non è tutto: il silenzio, in questa ottica, controlla, limita e corregge le deviazioni connesse alla babelica confusione di lingue e di parole. L’ascolto e l’osservazione sono possibili a partire da un silenzio produttivo. Ecco perché questa forma di assenza di suono non viene mai sperimentata nel contesto organizzativo e associativo, caratterizzato viceversa da vistosi rumori comunicativi di fondo: nel silenzio attivo le cose si capiscono meglio e nelle vicende umane (organizzative o meno), è spesso molto meglio non capire. O più precisamente: è meglio illudersi di capire, a partire da forme di ascolto fittizio e da parole scelte ad arte per non descrivere né fatti né realtà.
Lo Spirito Folletto

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