Vita associativa e regole monastiche

Il tempo che intercorre tra l’ordinare un caffé e il momento in cui il barista appoggia la tazzina sul bancone, assume a volte la straordinaria dimensione dell’infinito. Basta volerlo. In questo spazio di quiete totalmente nostro, i pensieri possono correrci amichevolmente incontro. In altre parole: lo scorrere del tempo e l’averne o il non averne, non è mai una questione di quantità ma piuttosto di qualità. È poi singolare e strano che la buona qualità dipenda da un buon sistema di regole, da buoni e rigorosi impianti metodologici, nella sostanza: da una buona dose di ordine rigoroso.
Ordine e regola rinviano direttamente alle organizzazioni religiose e monastiche che – in quanto organizzazioni, seppur particolari – hanno molto da insegnare agli uomini e alle donne che si organizzano per raggiungere obiettivi condivisi. Come nel caso di ogni realtà associativa, dove le persone hanno e si danno un preciso e ben determinato obiettivo: migliorare la qualità della vita dei propri, momentanei compagni di viaggio. Bambini, ragazzi o adulti che siano.

Da quest’ottica, la qualità è in rapporto diretto con la quantità. E viceversa.
Ma come tutto ciò si traduce nell’articolarsi, appunto, del vivere la vita associativa, dell’organizzazione e della società nel suo complesso?
Le parole e la loro storia ci vengono ancora una volta in aiuto:
Regola deriva dal latino e significa letteralmente “guidare diritto” e stava a indicare l’asticella di legno che serviva per tirare linee dritte. Nelle comunità cristiane, indica poi il complesso di norme secondo le quali è organizzata la vita dei monaci.
Norma deriva anch’essa dal latino e significa “squadra”, strumento utilizzato da tecnici e operai per tracciare e prendere misure.
Interessante notare subito che norme e regole non hanno il carattere costrittivo della Legge e questo, come vedremo, ha una sua specifica importanza.
Regole e norme hanno poi a che fare con il concetto di valore e di etica. Il primo termine rinvia a una possibilità di scelta e sta a indicare ogni condizione ritenuta desiderabile; il secondo qualifica la scienza della condotta, disciplina che indaga la natura dei fini e dei mezzi che guidano il comportamento dell’individuo e dei gruppi.
Etica, Valori, Regole e Norme: quattro ben definiti strumenti concettuali utili a navigare i mari organizzativi, dove a volte ci si trova tra brume e nebbie e senza un sicuro faro di riferimento. Quattro elementi che nascono e muoiono nella Storia e nel suo scorrere.

Le Regole chiedono di essere cambiate
Un fatto è prima di tutto importante notare: Regole e Norme hanno a che vedere con l’operare concreto, quotidiano, minuto. Strumenti che servono per tirare linee dritte e per prendere misure esatte. Solo a partire da questa specifica concretezza hanno in seguito assunto un valore lessicale più esteso e generale.
La regola nasce da precisi contesti applicativi e ne segue il naturale ciclo di sviluppo: nasce e vive chiedendo di essere cambiata. Naturalmente quando le condizioni lo renderanno necessario. E qui incontriamo una prima difficoltà: ogni vita organizzativa è tentata di trasformarsi in status perenne in cui tutto è regolato e normato, assumendo così tonalità rassicuranti un po’ per tutti coloro che partecipano alla medesima vita organizzativa e aziendale.
L’ossessione diffusa per le certificazioni di qualità ne è attualissima conferma: tutto è normato ma (quasi) nulla funziona…
E poi c’è la questione dell’assunzione di responsabilità. Al riguardo, sono interessanti gli spunti di riflessione offerti da Umberto Galimberti nel corso di un incontro svoltosi alla Comunità di Bose (Cuneo) il 15 aprile di qualche anno fa.
La sintesi del ragionamento che ci interessa, è la seguente:

Viviamo nell’ Età della Tecnica, Età che inizia con il nazismo. Nel nazismo si è venuta a determinare quella che è stata poi la forma dell’età della tecnica: un’autolimitazione della responsabilità alla pura esecuzione dei compiti.
Cosa significa? Franz Stangl, capo del campo di concentramento di Treblinka, in una serie di interviste (raccolte poi in un libro tradotto oggi anche in italiano: “In quelle tenebre”, edito da Adelphi), alla ricorrente domanda “Cosa provavi a fare tutti quei massacri?”, rispondeva di non capirne quasi il senso. “Io venivo qui alle nove, alle 11 veniva un carico di tremila persone che dovevano essere soppresse entro le tre del pomeriggio perché poi sarebbe arrivato un secondo carico. Il metodo individuato funzionava. Questo era il mio lavoro”. Basta, lui era semplicemente un funzionario che eseguiva un lavoro. Punto. Senza assumersi nessuna responsabilità delle conseguenze del suo lavoro.
Questa è stata l’inaugurazione della condizione comune di tutti noi che viviamo nell’Età della Tecnica. Siamo responsabili del nostro mansionario e siamo tenuti al massimo rispetto del nostro superiore ma non siamo responsabili delle conseguenze delle nostre azioni. Da ciò siamo esonerati.
Lasciamo il campo di concentramento e andiamo in qualche fabbrica di mine anti-uomo del bresciano e chiediamoci: “Costoro che costruiscono mine anti-uomo, sono operai o sono delinquenti? “Probabilmente risponderemmo che sono operai, perché se offrissimo loro la possibilità di andare a lavorare in un’industria alimentare magari aumentandogli lo stipendio, quasi di sicuro ci andrebbero. Ma che cosa è per loro “bene” e “male”? Fare bene o male le spolette delle mine anti-uomo. Questa è la loro virtù. Essere bravi o non bravi a fare questo mestiere.
Attenzione, allora, quando si usa la parola lavoro, perché la parola lavoro si usa ormai per indicare una riduzione della responsabilità e si limita a identificare una buona esecuzione delle azioni descritte e prescritte dall’apparato di appartenenza.
Siamo responsabili di fronte al superiore. Ma le conseguenze finali di tutto l’apparato cui apparteniamo, innanzitutto non le conosciamo e anche se le conoscessimo, non sarebbero di nostra competenza.
E’ ormai storia assodata che una quindicina di anni fa, la Banca Nazionale del Lavoro, attraverso un’agenzia nord-americana, finanziava il traffico d’armi, dove tra i beneficiari c’era anche Saddam Hussein. L’impiegato della BNL d’allora può essere ritenuto responsabile? No. Però apparteneva a un apparato dove uno degli scopi finali era questo. La tecnica ci dispone in una serie di apparati i cui scopi finali sono invisibili. Ma anche se fossero conoscibili, ciascun funzionario di questi apparati non ne sarebbe responsabile.

Seguire e far nostro il filo del ragionare di Galimberti ha una certa rilevanza anche (e forse: proprio) in ordine alle attività svolte da ciascun volontario. Il quale, volente o nolente, viene a trovarsi di fronte alla questione dell’assumersi la responsabilità di ciò che è chiamato a fare dall’Associazione della quale ha deciso volontariamente di far parte.

La tecnica prevale sull’Etica?
Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, scrive, nell’introduzione al testo Regole monastiche d’Occidente :
“…(Viviamo) in un mondo affascinato e intimorito da una globalizzazione la cui origine, natura, governo e orientamento restano tuttora da precisare, ma la cui presenza nessuno può ignorare; in una società in cui la tecnica pare prevalere sull’etica, o comunque agire a prescindere da questa…in una cultura dominata dall’immagine e dalla simulazione, in cui finisce per essere vero ciò che appare…”
L’assunzione di responsabilità individuale – quindi – come aspetto problematico della società odierna. E del mondo associativo e del lavoro, che di questa società condivide necessariamente valori e prospettive.
Ribaltiamo allora il tutto: se riuscissimo a introdurre nuove regole negli universi organizzativi, potremmo forse dare un forte contributo al miglioramento della qualità della vita umana nel corpus sociale più esteso e ampio. Ad esempio: nell’universo della scuola e dell’Università vi sarebbe molto da fare in questa direzione: è ancora oggi diffusa la tendenza a spingere lo studente a non esprimere la propria opinione in relazione ai testi letti e studiati: “Ma chi è lei per poter arrogarsi il diritto di esprimere un parere personale rispetto a questo o a quell’Autore? Lei deve soltanto dimostrare di aver studiato e quindi deve limitarsi a riassumere correttamente il pensiero di questi stessi Autori”. Questo è più o meno il discorso che di recente ha fatto il relatore di una tesi di laurea (ne ha riferito una studentessa proprio qualche tempo fa). Utopistico il pensarlo, ma sarebbe auspicabile una norma giuridica che consentisse all’azienda che assumerà questa stessa studentessa (che, per laurearsi, avrà imparato a non pensare), di citare per danni il suo relatore…
Nello svolgere la propria attività, il volontario sarà bene ricordi che i bambini e i ragazzi che “accompagnerà” per il tempo del loro stare momentaneamente insieme, sono persone. E soprattutto, per migliorarne la qualità della vita e garantirne un maggior benessere, dovrà sollecitarne e garantirne il diritto ad esprimersi.

Per una cultura della sicurezza
Ritorniamo alle regole e al mondo monastico, nell’ipotesi che la riflessione possa costituirsi in termini operativamente interessanti per coloro che vivono gli ambienti associativi ai più diversi livelli di responsabilità.
Una cosa va prima di tutto affermata: non vi è Legge, e quindi tantomeno Regola o Norma, che possa venir rispettata in assenza di una profonda condivisione dei valori che l’hanno generata e ai quali questa stessa Legge si è ispirata. Un esempio valga per tutti: la sicurezza sul e del lavoro (con le molti morti di cui riferisce la cronaca) non dipende dal conoscere o meno i comportamenti a norma. Non è un problema di “ignoranza” (le persone sanno che cosa dovrebbero e non dovrebbero fare), quanto piuttosto di mentalità e di cultura. Ecco che la sudditanza dell’etica alla tecnica cui accenna Enzo Bianchi, fa capolino anche in quest’ordine di problema. Se l’adozione delle misure di sicurezza viene visto come un puro costo, un investimento a perdere, è tecnicamente accettabile l’eluderle, sia da parte dell’Impresa che da parte del singolo operatore.

Comunità sociale e Comunità monastiche
Per affrontare il tema delle regole, diamo ora un’occhiata al mondo delle comunità cristiane. L’ipotesi è che, tra comunità monastica e comunità comunità sociale nel senso più ampio del termine, in quanto a sistemi di regolazione, vi sia una certa qual metaforica contiguità.
I testi normativi della comunità religiosa cristiana sono i Vangeli. Ma sono, sorprendentemente, testi dalla trama spezzata, frammentaria; antologia di episodi isolati, senza nessi precisi con il contesto. Eppure, scritti verso la seconda metà del I secolo, ancor oggi sono il punto di ideale riferimento delle comunità monastiche e cristiane. Come può essere, allora, che un testo per certi versi ambiguo e incoerente, abbia resistito così a lungo senza subire le devastazioni del tempo? Semplice: vi è riconoscibile, riconosciuto e condiviso, un valore principale e di fondo. L’Evangelo si forma infatti attorno a un preciso nucleo di annuncio che proclama una formidabile novità: Gesù di Nazaret è il Cristo, resuscitato da Dio. E’ il Signore. Questo è il nocciolo della questione e si tratta di un “nocciolo” che ancor oggi credenti e non credenti possono riconoscere.

Superare la Regola, in piena libertà
Ecco il punto: nelle comunità laiche – al contrario – aziende, associazioni e società civile comprese (e soprattutto nell’attuale periodo storico), manca la possibilità di intravedere un “nocciolo” di forza anche solo lontanamente paragonabile a quella che si manifesta all’interno dei Vangeli. Il profitto non può del resto assumere validità valoriale: “è proprio la regola che consente di capire come il motore di una comunità non può essere solo quello dello sviluppo economico e l’unica legge, appunto, quella del profitto”. E il discorso vale anche per i motori che muovono le comunità associative, anche se questo è un aspetto che si tende a dimenticare. Con grave danno e limitazione di qualsiasi intervento finalizzato allo sviluppo motivazionale delle cosiddette risorse umane (nel nostro caso: bambini e ragazzi).
Importante poi non considerarsi prigionieri della regola, ma addirittura predisporsi a superarla nella libertà, una volta che se ne siano ben compresi i motivi e i valori che hanno generato questa stessa regola.
Le Comunità, infine, dovrebbero essere i luoghi dove il singolo possa esercitare la propria responsabilità verso l’altro .

Tre dominanti: sesso, ricchezza, potere
Un ulteriore aspetto interessante relativo al corpus di regole monastiche cui potrebbero ispirarsi le norme che attualmente governano ogni organizzazione, riguarda l’aver individuato le tre principali dominanti della condotta umana (e si tenga conto che Sigmund Freud sarebbe nato dopo oltre otto secoli…): il sesso, la ricchezza, il potere (in termini “tecnici”: libido amandi, possidendi e dominandi).
Nulla da dire. E nulla da eccepire neppure rispetto al fatto che si tratta di “dominanti” che ancor oggi interferiscono con l’articolarsi di azioni corrette e rispettose dell’altrui e della propria dignità.
Come fare? Quali contromisure prendere? Il mondo dei monaci ha dato una pronta risposta: castità, povertà e obbedienza come antidoti a questa diabolica trilogia pulsionale alla base della natura umana. Chiedere al volontario di essere casto, povero e obbediente è sinceramente troppo. Ma il suggerimento è utile: una volta individuate le maggiori criticità, adottare e stabilire regole precise di comportamento che possano favorire il loro superamento. Sia detto per inciso: un’analoga procedura varrebbe anche per quella particolare forma organizzativa che è la famiglia.
Ma, nel dettaglio e tanto per averne un’idea, come erano redatti questi documenti che normavano la vita del monastero?
Uno degli impianti di regole più antico giunto fino a noi, è l’Ordo Monasteri, scritto intorno al 395. Vediamone qualche paragrafo:

La liturgia delle ore
Definiamo, ora, come dobbiamo pregare o salmodiare.
Al mattino si dicano tre salmi: il 62, il 5 e l’89…
Si prosegue così, dando direttive molto precise su che cosa fare fino alle preghiere notturne. Viene in seguito stabilito l’orario di lavoro: I fratelli lavorino dal mattino alla sera…

Che nessuno mormori
Che nessuno faccia qualcosa con mormorazione…Non si trovi presso i fratelli, nessuna parola oziosa…

Verso il 397 fu Agostino a scrivere le Regole per la comunità appena fondata a Ippona:

Il vostro abito non sia tale da attirare l’attenzione; e non cercate di piacere con le vostre vesti, ma con la vostra vita…Colui, poi, che fissa gli occhi su una donna e che ama che quelli di lei si fissino su di lui, non deve credere che gli altri non lo vedano…Nessuno compia qualche lavoro per sé, ma tutti i vostri lavori siano fatti per la comunità…I libri siano chiesti ogni giorno a una determinata ora. Se qualcuno li richiede al di fuori di tale ora, non li riceva…Chi presiede su di voi si ritenga felice non se domina spadroneggiando, ma se serve con carità. Nei confronti di tutti offra se stesso come esempio di buone opere; corregga gli inquieti, consoli i pusillanimi, accolga i deboli, sia paziente con tutti…E’ importante vivere non come servi sotto una legge, ma come uomini liberi stabiliti sotto la grazia. E infine: perché possiate osservarvi in questo libretto come in uno specchio e non rischiate di trascurare qualcosa per dimenticanza, esso vi sia letto una volta alla settimana.

E poi la Regola dei quattro Padri, la regola Orientale (…se qualcuno, senza permesso del superiore, arriva in ritardo, faccia penitenza e torni alla sua cella digiuno…Nessuno prenda verdure dall’orto se non le ha ricevute dall’ortolano…Se il preposito giudica ingiustamente, sarà ritenuto dagli altri colpevole di ingiustizia), Le Regole della Gallia (…non giurate affatto, ma la vostra parola sia: sì sì, no no…chi arriva tardi all’ufficio divino riceva subito la bacchetta sulle mani…).
Benedetto fondò il monastero di Montecassino intorno al 530 e in quell’occasione scrisse la sua Regola: …Un abate che sia degno di presiedere un monastero deve ricordarsi sempre di come viene chiamato e adempiere con i fatti al suo nome di superiore…Non faccia discriminazioni di persona…Ogni volta che in monastero vi è da trattare qualcosa di importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga egli stesso l’argomento da prendere in esame. Ascoltando, poi, il parere dei fratelli, esamini la cosa dentro di sé e faccia ciò che avrà giudicato utile. Abbiamo detto che a consiglio siano chiamati tutti per questo motivo: perché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio…Non essere superbi, non dediti al vino, non mangioni, non dormiglioni, non pigri, non mormoratori, non maldicenti…Come sta scritto: “Veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno”…
E Francesco? La sua regola bollata (“bollata” perché approvata dal pontefice Onorio III) fu scritta intorno al 1222. E anche il più mansueto dei santi, quando c’è da cantarle chiare, non usa mezze misure: ordino fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano, personalmente o per interposta persona, denari o soldi…i frati non si approprino di nulla, né di una casa, né di un luogo, né di cosa alcuna…

Insomma: le Regole monastiche d’Occidente potrebbero ancor oggi essere prese ad esempio ogni qualvolta si dovesse metter mano a procedure e norme utili a governare la vita di quella particolare comunità che nominiamo Associazione.

 

 

 

 

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