Il punto di partenza
La Repubblica delle donne (N.513 del 26 agosto 2006, pag. 174) di qualche anno fa, nella consueta rubrica curata da Umberto Galimberti, si discuteva del problema del capitale umano.
Scrive Galimberti: “…quelle microsocietà che sono le imprese, se oggi incontrano problemi e difficoltà, è anche perché gli strumenti di conduzione di cui dispongono, utilizzando solo il pensiero calcolante (efficienza, produttività, obiettivi a breve e a lungo termine), sono inadeguati alla globalizzazione del mercato, che, per essere compreso, richiede competenze antropologiche per entrare in relazione con altre culture e visioni del mondo, di cui dispone abbondantemente il pensiero filosofico e non quello calcolante.” E ancora: “…siccome le organizzazioni sono fatte di uomini, ci si priva di tutte le loro ideazioni se il modello a cui devono adeguarsi, come prevede il pensiero calcolante, è quello della macchina. Ciò comporta da un lato la loro mortificazione, che innesca demotivazione e alla fine inefficienza, dall’altro quella condizione di passività che priva le imprese di tutti i loro possibili contributi.”
“Il capitale umano” – conclude Galimberti – “ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario: perché se questo si misura sui tempi brevi del rendiconto trimestrale e della quotazione in Borsa, il capitale umano esige un respiro più lungo e una forza che si conquista per maturazioni e arricchimenti successivi, di cui il pensiero calcolante non ha la più pallida idea.”
Posizione netta, che rincuora da più punti di vista. Prima di tutto, in quanto (e finalmente) dei problemi del mondo del lavoro e delle Organizzazioni in genere (comprese le No Profit) – dove uomini e donne trascorrono il maggior numero di ore nello stato di veglia – si comincia a discutere di fronte a platee sempre più ampie. E in secondo luogo, perché il concetto di pensiero calcolante proposto da Galimberti, favorisce l’articolazione e lo sviluppo di riflessioni di indubbio significato applicativo.
Approfondiamo il tema.
Don Giovanni e la categoria del singolo
Nell’ampio saggio introduttivo all’opera che Soren Kierkegaard ( Considerato il padre dell’Esistenzialismo, nasce nel 1813 e muore nel 1855) dedica a Don Giovanni (Kierkegaard, S., Don Giovanni. La musica di Mozart e l’Eros, Milano, Denti, s.d., [1944] pgg. 9 – 40), Remo Cantoni avanza una considerazione per noi di estremo interesse: “Ogni sistema, più si fa perfetta e armonica la sua armatura concettuale, più si nega alla vita e all’esperienza, che non si lasciano rinserrare in nessun sistema logico.”
Ecco il punto: la gestione delle risorse umane in un qualsiasi contesto aziendale, organizzativo o volontariale che sia, ncontra fatalmente la categoria del singolo. Di un singolo lasciato spesso tragicamente solo di fronte all’incomprensibilità kafkiana del Castello organizzativo. Non è cioè possibile immaginare paradigmi gestionali e parametri valutativi che eludano e neghino l’essenza dell’individualità. I “collaboratori” in quanto categoria astratta, sono frutto di un semplice e riduttivo fantasticare delirante. Al contrario, esistono singole persone, con la propria storia e il proprio portato di emozione. Con il proprio bagaglio di affettività che sfugge al governo dei tanto auspicati canoni logici. Il responsabile di un gruppo deve tenerne conto, facendo a sua volta affidamento a ciò che la propria storia l’ha portato ad essere.
Ma andiamo per gradi, teatralizzando per un solo momento le peculiari vicende relazionali che caratterizzano la dialettica capo-collaboratore o – se si vuole – volontario-educatore /minore-adolescente, dove i poli dell’arco della seduzione (un responsabile deve necessariamente essere almeno un po’ seduttivo…) sono lo spirito (Faust) e la sensualità (Don Giovanni). Prima di tutto, quindi, che ognuno scelga quale ruolo desidera interpretare sul palcoscenico delle vicende relazional-organizzative. Sapendo, magari, che il seduttore sensuale aspira a un piacere che culmina nel possesso (di un livello gerarchico superiore, per esempio, che gli consenta più ampli margini decisionali. O della simpatia dei propri collaboratori-interlocutori…), mentre il seduttore intellettuale tende a cogliere sempre il lato interessante della vita. Ma vi è – sostiene Cantoni – un che di odioso nel comportamento di un tale seduttore: “Vi è un calcolo raffinato che concentra e distilla il piacere, cavandolo dalla donna amante che diviene l’oggetto e la vittima di un gioco, in cui essa paga di persona, offrendo la sua passione, mentre il suo seduttore, già nei piani tattici e strategici d’assalto, medita e tien pronte le vie della ritirata.”
Ecco, quindi, il configurarsi di un rischio: le persone delle quali altre persone si prendono cura, potrebbero essere – a ben vedere – oggetto e spesso vittime di giochi che alla fine vedono però e comunque lo scaltro seduttore che se la cava, soprattutto nei bizzarri mondi aziendali: l’Amministratore delegato di un’Azienda condotta al collasso economico-produttivo, assumerà altri incarichi di prestigio, non chiedendosi nessuno quale sia stato il ruolo da lui stesso giocato e quali responsabilità abbia avuto nel fallimento della Società di provenienza. Contestualmente, il personale viene ridotto (leggi: licenziato) e il morale (leggi: motivazione) di coloro che restano, si abbatte.
Ma c’è dell’altro. Qualsiasi struttura associativa e organizzativa è caratterizzata da specifiche colonne sonore e da peculiari assetti architettonici. Si tratta – beninteso – di musica silente e di un’alternarsi di pieni e vuoti di cui vi è totale inconsapevolezza. Ciò non toglie che vengano comunque ad assumere un ruolo essenziale nel favorire o meno le buone pratiche gestionali. Per esempio: si è del parere (Cantoni) che il Don Giovanni mozartiano sia un capolavoro d’arte classica “…perché realizza mirabilmente l’accordo di forma e contenuto.” Il mezzo espressivo della musica di Mozart ha trovato il proprio, perfetto contenuto. Da questa prospettiva, un po’ di relativo e discreto classicismo nella conduzione di Associazioni, Aziende e Organizzazioni (e fors’anche di tutta la società), non sarebbe cosa disdicevole. Ciò che alle volte rende critiche le relazioni finalizzate al raggiungimento di un obiettivo, sta nel fatto che le forme (espressive) e i contenuti non sono per nulla coerenti: si predica bene e si razzola male. Chi allora governa e gestisce realtà umane, a qualsiasi livello della scala gerarchica, è chiamato ad assumersi la responsabilità di scegliere spartito e musica coerente con i contenuti che si vogliono di volta in volta erogare.
Un’interdizione radicale
Il pensiero calcolante porrebbe a questo punto un’interdizione radicale: “in questo contesto, che significa spartito ? e che significa musica ? Chiarire termini e concetti. Darne definizioni logicamente sostenibili.” Blocco. Paralisi totale. Caos all’incrocio dei pensieri. Proprio per le ragioni addotte da Cantoni (e non solo…): le vicende umane non possono essere imprigionate nelle seppur dorate gabbie logiche. E’ sempre e comunque la vita a risultare vincente quando un sistema ne tenta l’esasperata razionalizzazione. La vita, con tutto il suo bagaglio di curiosa illogicità. E’ bene allora che coloro che hanno responsabilità gestionali, affinino l’orecchio, ascoltino e facciano proprio il potere evocativo di termini, concetti e parole. Gustando il piacevole sapore delle suggestioni illogiche. Si potrà toccar allora con mano e sperimentare direttamente, come sia soltanto una tale prospettiva che consente il generarsi di un’efficace creatività (a suo modo necessariamente logica…), intesa come la capacità di accorgersi di ciò che è sempre stato sotto gli occhi di tutti e di cui però nessuno si era fino a quel momento accorto. Ricombinare insieme elementi già conosciuti per farne qualcosa di nuovo e di aziendalmente utile: oltre che in grado di governare i meccanismi seduttivi, il bravo gestore di risorse umane (e il volontario è anch’esso un “gestore” di risorse che, a sua volta, dovrebbe essere “bravo”…) dovrà anche dimostrarsi creativo nel proprio vivere, interpretare e, all’occorrenza, modificare meccanismi organizzativi che altrimenti diverrebbero nel tempo pure e semplici costrizioni. Del tutto in contrasto con il benessere “associativo”. Per questo aspetto, corre l’obbligo di segnalare (con un occhio di riguardo al pensiero calcolante) che, se donne e uomini temporaneamente ospitati nell’organizzazione vivono bene la propria condizione, prodotto e servizio offerto sarà di buona qualità. In sostanza, abbiamo incontrato la questione del clima.
Valutazione e Motivazione
Le azioni finalizzate alla valutazione e alla motivazione, sono sotto-insiemi processuali di quel più ampio insieme (anch’esso , processuale) che va sotto il nome di gestione delle risorse umane. Se ci si pensa, in un processo – perché non resti nel fastidioso ambito dell’astrattezza – devono risultare chiare e riconoscibili le relative azioni. Ecco la questione di fondo: i vari e diversi momenti in cui si scompongono i processi valutativi e motivazionali, non sono isolabili dal movimento totale dove ,in una qualche misura, ciascun momento è immerso. Si tratta dell’importanza cruciale del dettaglio: le singole azioni relazionali (un saluto, la comunicazione della valutazione, un sorriso piuttosto che un’occhiata arcigna…) vanno intese in quanto individualità operative distinte, quasi forme autonome di un più vasto pensiero organizzativo di cui occorre cogliere proprio questo momento di autonomia, seppur nell’ottica di un più generale criterio generatore di prospettive aziendali strategiche.
Il pensiero che pensa l’organizzazione (Associazione o Azienda che sia) non ha origine dal pensiero, ma si alimenta da atti di concretezza vitale, da un qualcosa – con buona pace del pensiero calcolante – che ha i caratteri dell’extra o del meta-logico.
La relazione con uomini e donne, anche e proprio quando è finalizzata al raggiungimento di obiettivi di senso organizzativo e associativo, non può prescindere dalla concreta soggettività del pensante.
Dice di sé Kierkegaard: “Scrivo per gli innamorati, per coloro che in qualche istante sanno aver l’anima chiara e profonda dei fanciulli.” Possiamo così aggiungere un ulteriore tassello al profilo ideale del bravo gestore di risorse umane: oltre che seduttore e creativo, anche innamorato, nel senso proposto da Kierkegaard.
E’ la gioia dell’attimo relazionale che può far sì che si sviluppi un solido impianto motivazionale. Solo parlarne, però, non basta: la parola è insufficiente ad esprimere l’immediatezza delle emozioni (negative o positive che siano) provate da ogni singolo vivente l’organizzazione. La parola, in quanto deve per forza riferirsi alla mediazione logica, mortifica gioie, dolori e sofferenze. A meno che non sia poetica. E a meno che non ci si predisponga a concedere alla vita la facoltà di mandare tutto all’aria: spirito, ragione e via via ogni modello gestionale che si dovesse ispirare a paradigmi esclusivamente “logici”.
Lo Spirito Folletto